Avevo sei anni quando per il resto del mondo era il 1944 e mia figlia pensa che, fortunatamente, erano abbastanza per ricordare. Abitavo in un piccolo paese alle porte di Roma e vivevo in maniera seppure indefinita la ritirata delle truppe tedesche da quella che era stata per troppi anni la loro presenza nella nostra storia.

Era una mattina che sarebbe stata come tante altre se alcuni giovani militari non fossero entrati nella mia casa a requisire tutte le coperte per accatastarle in un grande magazzino alle porte del paese. La mia giovane età non mi fece pensare possibile alcuna resistenza, né pensai potesse essere importante. Lasciai loro fare come avevo visto succedere mille altre volte negli ultimi anni da chi, seppure più grande di me, non trovava mai la forza di ribellarsi.

Quando lasciarono la mia casa sentii distintamente un senso di vuoto che sembrava incolmabile. Avevano portato via solo le coperte? Sembrava di si.

Vivevo ancora quel periodo della vita in cui le sensazioni tengono legate a sé i movimenti e non feci assolutamente nulla per molte ore, fino all’arrivo di mia sorella… una giovane donna provata dalla fatica, dalla guerra e da un marito che li rappresentava entrambi.

Una giovane donna che prende per mano un bambino di sei anni, chiude la casa a chiave, scende le scale per raggiungere la strada che la porterà al magazzino… tutto troppo veloce per capirne le intenzioni. Anche se sembrava fluire dalla decisione e morbidezza dei suoi movimenti un senso di sicurezza che percepivo nettamente e che mi faceva sentire volontariamente costretto a stare al suo fianco.

Tutto si ferma come in una foto incorniciata dallo stipite del portone, io e lei con alle spalle l’aria calda dell’estate e davanti la penombra di una piccola montagna di stracci affiancata da un ragazzo con un mitra tra le braccia.

La sua mano non stringeva la mia… non era necessario. Quella che agli occhi di tutti sembrava una follia ci teneva legati, il mio futuro era nelle mani della sua capacità di ribellarsi. E lei non disse nulla, neanche quando il giovane militare alzando il tiro dell’arma pronunciò incomprensibili parole in tedesco il cui tono non rendeva necessaria alcuna traduzione. Una frase breve che ripeté due tre quattro volte mentre lei si avvicinava. Credo che lo abbia guardato o forse fu lui che vide lei… forse seppe reagire, con quella tristezza che rende gli uomini più umani, alla bellezza di una donna che non si lascia fermare. Generosamente seppe interrompere la storia per qualche minuto, il tempo necessario perché lei finisse di attraversare i metri che la dividevano dalle sue coperte, prenderle ed uscire come se in quel momento fosse l’unica vera padrona di quello spazio.

Tutto sembrava concludersi con la nostra presenza sulla strada, ma il fatto che mia figlia oggi ve ne stia parlando mi dice che, come un’eco ha attraversato gli anni per diventare di volta in volta la possibilità per le donne della mia famiglia di dire di no, di non farsi fermare, di riprendersi ciò che è loro senza temere ogni volta di essere uccise e che volle me accanto perché non avrebbe mai saputo raccontarmelo.

Una storia vera, raccontata tante volte da mio padre, rimasta nel passato finché non mi è capitato di sentire dentro lo stesso coraggio di quella ragazza. Quel giorno la storia è diventata anche mia.

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