Elaborazione in chiave testuale di un evento organizzato al Teatro Vittoria di Roma il 24 gennaio 2014, dal titolo: Artemisia Gentileschi: l’ardenimento de le femine[1].  Affetti e musica sulla strada tra Roma e Firenze. Ideato e realizzato da Anna Maria Panzera.

 

Artemisia Gentileschi, o Artemisia Lomi, come volle farsi chiamare nei suoi anni fiorentini. È nota a tutti. Figlia di Orazio Lomi Gentileschi, pittore in Roma proveniente da Pisa, amico di Caravaggio e come lui rissoso protagonista delle notti brave di un Seicento picaresco, sempre altalenante tra sacro e profano.

Sarete d’accordo se noi la chiameremo semplicemente Artemisia; vorremmo salvare e sottolineare la sua identità, sottrarla all’estenuante agone attributivo tra la sua opera e quella del padre.
Artemisia, per la verità, disputa una battaglia persino più sottile, tra la sua opera e la sua vita. E quest’ultima, nelle sue inflessioni più avverse, ha rischiato tante volte di rubare la scena all’arte.

La vicenda biografica di questa donna ebbe un peso enorme sulla sua carriera, e fu sempre avventurosa. Talmente lunga che è impossibile non distinguerla nei suoi vari momenti, vissuti tra Roma, Firenze, Londra, Napoli.
Oggi parleremo degli anni trascorsi da Artemisia tra Roma e Firenze, viaggio d’andata, soggiorno e viaggio di ritorno. 1613-1620 e poi 1620-1626: tredici anni fiorenti, in cui la pittrice guadagna appieno il titolo che ancora non osiamo darle: maestra. Chi chiama “maestra” una donna che possiede l’identico talento manuale di uomini cui senza difficoltà si offre quell’opportuno appellativo? E senza che abbiano bisogno di allestire una vera e propria scuola attorno a sé.

Magistra artium, secondo il corretto appellativo medievale e rinascimentale, è Artemisia, che fu a capo di un modo tutto particolare di realizzare opere d’arte pittorica. Modo irrefrenabile e fascinoso, saturo di pathos e di complessità, sontuoso e magnifico, costruito sul e per quel palcoscenico galileiano delle arti creato attorno a Cosimo II, principe di Firenze, amante e conoscitore della pittura, della musica e della poesia moderne, come nessun altro sovrano in Europa.
Per arrivare velocemente a Firenze, dovremo tralasciare molti dei particolari noti della vita romana: la morte della madre quando lei ha dodici anni, l’occupazione attorno alle faccende di casa, che comprendono anche la bottega del padre pittore: è qui che come Zezolla, come un’insolita Gatta Cenerentola, Artemisia si trasforma da casalinga… no, non in principessa – che banalità sarebbe stata! In apprendista, piuttosto: l’età è quella giusta, e come ogni apprendista che si rispetti, Artemisia macina colori, prepara le tele, fabbrica pennelli.
Ma questa ragazzina fa anche di più: studia la propria faccia e il proprio corpo e dipinge.

Artemisia Gentileschi, Autoritratto o Allegoria della pittura (1614-20)

È il 1608, lei ha 15 anni e forse si ritrae come Allegoria della pittura. Potrebbe essere il primo autoritratto noto della pittrice giovanissima, agghindata come l’allegoria descritta da Cesare Ripa: donna, bella, co’ capelli neri, e grossi, sparsi, e ritorti in diverse maniere, con le ciglia inarcate, che mostrino pensieri fantastichi; si copra la bocca con una fascia legata dietro a gli orecchi, con una catena d’oro al collo, dalla quale penda una maschera, e abbia scritto nella fronte Imitatio. Terrà in una mano il pennello, e nell’altra la tavola.

Ogni particolare prescritto dal Ripa è rispettato nel dipinto, salvo la fascia sulla bocca, forse perché per Artemisia la pittura non è muta: essa parla al posto suo.

 

Pandolfo Reschi, Veduta di Palazzo Pitti, 1668-69; Firenze, Galleria Palatina (Palazzo Pitti)

Pandolfo Reschi, Veduta di Palazzo Pitti, 1668-69; Firenze, Galleria Palatina (Palazzo Pitti)

D’Orazio Gentileschi rimase in queste nostre parti una figliuola vaghissima d’aspetto, e valente pittrice quanto mai altra femmina (…). Questa, che aveva imparata l’arte del padre, si diede prima a far ritratti, de’ quali fece moltissimi in Roma. E molto ancora fu impiegato suo pennello nella città di Firenze, e altrove.

 

Artemisia Gentileschi, Allegoria dell’Inclinazione, 1615-1616; Firenze, soffitto della Galleria di Casa Buonarroti.

Per Michelagnolo Buonarruoti il Giovane, celebre letterato, e poeta, quegli che compose la bella commedia rusticale detta la Tancia, dipinse questa virtuosa Donna di bellissima maniera una figura quanto il naturale, dico una Femmina di bellissimo, molto vivace e fiero aspetto, la quale stringe una bussola, mentre una lucida stella, che quasi guida, le risplende sopra alla fronte; tiene accomodate a i piedi due piccole carrucule, per dimostrare cred’io sua prontezza, e facilità nel moto, e nel corso all’acquisto d’ogni più nobile facultà. E questa che fu fatta per rappresentare l’inclinazione, ebbe luogo nel soffitto della nobilissima stanza della Casa, che fra l’altre di sua bella galleria, fu dedicata all’azioni gloriose del gran Michelagnolo Buonarruoti suo antenato, nel quinto spazio piccolo, che torna sopra la porta per cui entrasi in essa stanza. Era questa figura del tutto ignuda, e tale doveva essere secondo il poetico concetto del Buonarruoti, ma Lionardo, di lui nipote e erede, (…)volle che da Baldassarre Volterrano, (…) fusse quella nudità ricoperta (…).

 

Artemisia Gentileschi, Aurora, 1625-1627 ca.; Roma, collezione privata. In Casa Giovan Luigi Arrighetti, nobile fiorentino, è un bel quadro di mano dell’Artemisia, in cui rappresentò ella in proporzione poco meno di naturale l’Aurora vaga femmina ignuda con chiome sparse, e braccia stese inalzate verso il cielo, ed essa in atto di sollevarsi sul suo Orizonte, nel quale veggonsi apparire i primi Albori, e di portarsi a sgombrare alquanto le fosche caligini della notte. La figura per la parte dinanzi è tutta graziosamente sbattimentata in modo, che non lascia però di far mostra della bella proporzione delle membra, e del vago colorito, restando solamente percossa dalla nascente mattutina luce dalla opposta parte, e veramente ell’è opera bella, e che fa conoscere fino a qual segno giungesse l’ingegno, e la mano d’una tal Donna.

 

Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, 1612-1621; Firenze, Galleria degli Uffizi.Nel palazzo del Serenissimo granduca di Toscana sono due quadri di mano dell’Artemisia, in uno de’ quali assai grande è rappresentato il ratto di Proserpina (…). Ma bellissimo è un altro (…), nel quale è dipinta una Juditta nell’atto stesso di ricidere la testa d’Oloferne dal suo busto, opera al certo, che ogn’altra di sua mano avanza in bontà, e tanto ben pensata, e si al vivo espressa, che solamente il mirarla così dipinta mette non poco terrore. (…) [2]

 

 

Quando Artemisia arriva a Firenze, il suo bagaglio appare piuttosto ingombrante. In quei primi mesi fiorentini le invidie e i pettegolezzi non rendono facile l’adattamento alla nuova residenza.
Nel suo baule sono racchiusi molti oggetti e io ne voglio fare l’inventario:

• la fama, che ormai la precede in maniera assillante: coinvolta in una torbida vicenda di sesso, cui è seguito il noto processo per stupro, la sua immagine di donna ne è uscita malconcia, nonostante ella abbia dimostrato indubbio coraggio e una sopportazione incrollabile, anche sotto le torture e gli esami dei giudici.

• Una supplica, scritta dal padre il 3 luglio 1612 a Cristina di Lorena, comprendente una sintesi degli atti del processo e la promessa di una prova pittorica, per perorare l’accoglimento di Artemisia presso la corte medicea.

Sappia vostra Altezza Serenissima, che da 36 anni in qua habito in questa città sentendomi tutto questo tempo impiegato nella virtù et in specie nella professione della pittura. Mi ritruovo una figliuola femina con tre altri maschi, e questa femina (…) avendola drizzata nella professione della pittura, in tre anni si è talmente appraticata, che posso ardir de dire che hoggi non ci sia pare a lei (…) Doi anni sono capitò in questa città un certo Agostino Tasso pittore (…) io per mezzo d’altri amici m’intrinsicai in amicitia con lui (…) egli come publico scellerato, suggerito da un potentissimo mio nemico cercò per strade indirette e mezzi diabolici di conoscere per vista questa mia figliola, et finalmente avendola veduta trovò il modo, e la strada d’introdursi in casa mia, e havendo trovato la porta aperta presuntuosamente entrò in casa (…) e ritornò un’altra volta, et forzatamente, e con minacce ardì di conoscere carnalmente questa mia figliola (…) questo scelerato l’haveva assassinata sotto false promesse (…). Quando vederà l’opere e la virtù di questa mia povera figlia unica in questa professione, mi rendo sicuro, che averà cordoglio d’un assassinamento così grande fattomi (…).[3]

Un marito che le rimetta a posto la reputazione. Eccolo, Pierantonio Stiattesi, figlio di un sarto fiorentino e modesto pittore anch’egli. Figura curiosa e non troppo simpatica: disposto a riparare i danni provocati dal Tassi, Pierantonio si libera così di un debito contratto con Orazio Gentileschi e di fatto acquista una redditizia fonte di guadagno. Riscuote i suoi diritti di sposo in ogni aspetto, e diviene oculato e interessato amministratore della moglie. A tale relazione Artemisia non può sottrarsi. Per il sistema dell’epoca, in quanto donna, può ricevere commissioni e una paga solo in presenza di un marito, che funge da protettore anche nelle relazioni sociali. Si libererà di questa figura – caso veramente unico nel suo genere – molti anni dopo, poco prima di trasferirsi a Napoli.
Ancora, in valigia Artemisia mette bellezza e giovinezza. Arriva a Firenze che ha appena 20 anni, eppure viene accolta a corte, cominciando subito a lavorare. Dopo vari traslochi e due delle sue quattro gravidanze, accumula molti debiti ma verso il 1615 riesce ad allestire uno studio forse nel quartiere di S. Pier Maggiore, per iscriversi l’anno successivo all’Accademia del Disegno, prima donna ad esservi ammessa.

Justus Suttermans, Ritratto di Cosimo II de’ Medici, Maria Maddalena d’Austria e il figlio Ferdinando, 1640 ca.Anche la corte di Toscana si componeva di persone molto giovani ed (…) era dominata dalle donne: la madre e la moglie del granduca, Cristina di Lorena e Maria Maddalena d’Asburgo. Così descrive la corte Alexandra Lapierre (Artemisia, Mondadori): Mentre i sommi pontefici cercavano di estendere il potere della Chiesa, (…) il casato dei Medici, nel corso di cent’anni di signoria, si era come assopito in una sicurezza illusoria. In quell’inizio di Seicento nessun progetto politico animava la corte di Firenze né agitava la città. (…) La nobiltà (…) non pensava più a rimettere in questione i fondamenti della sua storia. Coltivare le arti al solo scopo di istruirsi e svagarsi; ricercare l’eleganza; portare la raffinatezza agli estremi; osare la curiosità intellettuale e l’audacia estetica: su questi punti Firenze manteneva le promesse del suo passato.

Insomma, Firenze vive e sopravvive sull’onda lunga del Rinascimento; persino nell’eclettica stagione barocca, non rinuncia mai apertamente alle sue solide fondamenta classiche; eppure riesce talvolta a declinarle in soluzioni strambe, che pongono il classico dietro una cortina che talvolta si alza, talvolta si abbassa, offrendo la visione di una relazione allucinatoria tra passato e presente. Come nell’opera di Cristofano Allori, pittore di corte e presto patrocinatore della stessa Artemisia, irrimediabilmente sedotto dalle donne, il quale decide di abbandonare il michelangiolesco e sacrale insegnamento paterno per dedicarsi ad un sontuoso manierismo, con la stessa voluttà con cui s’abbandona alla sua amante:

…invaghitosi tenacissimamente di certa bellissima donna detta la “Mazzafirra”, colla quale fu solito consumare tutt’i suoi grandissimi guadagni, menò poi sempre fra le gelosie, e mill’altre miserie, che sogliono tali pratiche arrecare, una vita interamente infelice Ma giacchè abbiamo fatto menzione di costei, è da sapersi, che uno dei più singulari quadri, che uscissero dalle sue mani fu quel tanto nominato della Juditta.[4]

Cristofano Allori, Giuditta con la testa di Oloferne, 1612; Firenze, Galleria Palatina.Ritrasse egli al vivo nella faccia di lei l’effigie della Mazzafirra; tiene questa colla destra mano una spada sguainata, e dall’altra sostiene per li capelli la testa d’Oloferne, e fu cosa curiosa a vedersi in Firenze per lo spazio di molti mesi, che egli consumò in far quell’opera, che non avendo trovato naturale a suo modo per effigiare l’Oloferne, egli medesimo si lasciò crescere la barba a gran segno, tanto che tra per questo, e per aver egli una fisionomia non molto aggradevole, non poteva vedersi cosa più tetra, e con sì bella acconciatura di viso(…) dipinse se stesso in quel quadro per Oloferne. [5]

 

Un vero melodramma, nell’arte come nella vita. E questo è interessante.

Il melodramma è una forma d’espressione musicale che nasce proprio in quegli anni. La corte dei Medici e la passione di Cosimo II per le arti hanno permesso a Giovanni Bardi e a Vincenzo Galilei di fondare la Camerata Fiorentina, il cui intento è di cercare uno stretto rapporto fra musica e parola. La musica “secreta”, anche detta “reservata”, diventa così una tecnica d’avanguardia di gusto manieristico. In quel termine, “reservata”, si racchiude una molteplicità di significati, spesso contraddittori: collegata all’espressione figurata dei testi, altamente ornata, erudita eppure sobria nel suo uso del contrappunto, dedicata alle corti ma usata anche in luoghi sacri, musica d’assolo o d’insieme, ricca di sfumature cromatiche o di ininterrotti flussi tonali: uno stile nuovo o una reliquia dimenticata e riscoperta?

Se ne fa promotore in prima istanza Giulio Cesare Caccini, ma sua figlia Francesca, detta Cecchina, sarà di fatto la musicista più pagata in Italia, la più produttiva e sempre ben attenta a distinguere la propria creatività e il proprio nome da quello del padre; fiera e irrequieta, musica le poesie di Michelangelo Buonarroti il Giovane, della cui cerchia fa ormai parte anche Artemisia, che ne gode l’appoggio incondizionato e in questo ambiente si trova perfettamente a suo agio. Cecchina compone arie d’opera e allestisce insieme agli altri artefici intrattenimenti raffinati, cui ben presto Artemisia prende parte.
Come leggiamo nella cronaca dello svolgimento di una festa, uno sposalizio, allietata da un intermezzo, ballato e cantato da ospiti travestiti da “Ninfe, Zigane e cavalieri”.

Et partite le Zigane e finito il balletto, si cominciò a ballare la galliarda et molti altri balletti, perfino alle ore quattro della notte (…). Sua Altissima Signoria per onorare la detta sposa, comandò che fosse portata una bella colazione di confetti et confetture servita nelle paniere di vinchi inargentati (…) et fatto questo si ballò la pavana e ciascuno fu licenziato.
Nomi propri di chi intravenne al detto ballo. La invenzione et le parole composte dal molto illustre cavaliere Ferdinando Sancinelli da Orvieto, cameriere segreto di Sua Altissima Signoria (…) il ballo composto da Agnolo Ricci (…) La sig.ra Francesca Caccini filiola di Giulio Romano Musico, la quale sig.ra Francesca ha composto tutta la musica. La sig.ra Artimisia che cantava. [6]

 

 

Dipinto di Artemisa Gentileschi dal titolo Autoritratto come suonatrice di liuto (1615-17 ca) - Testo di Francesca Caccini

Testo e musica di Francesca Caccini  (1618), esecuzione di Shannon Mercer
Artemisia Gentileschi, Autoritratto come suonatrice di liuto, 1615-17 ca.; Minneapolis, Curtis Galleries.

Francesca Caccini, Il primo libro de le musiche a una e due voci, frontespizio e pagina interna, Stamperia Zanobi Pignoni, Firenze 1618.

L’atteggiamento degli artisti nei confronti della musica non è molto diverso da quello nei confronti della pittura. Ciò contribuirà a offrire ad Artemisia l’occasione per mettere a frutto doti originalissime, intrecciandole a quanto di più interessante, contemporaneamente, accade in campo musicale, in nome dell’unità di tutte le arti, in nome dei loro effetti sull’animo umano.
Così facendo e affrancata finalmente e in ogni senso dalla difficile vita precedente, la pittrice non incontra rivali. Sviluppa una pittura eccellente, unica, sia perché fatta per mano di una donna, sia perché portatrice di un’espressività concentrata e tradotta in narrazione, di un gusto tutto barocco. Non è soverchio parlar donnesco: è la quintessenza di un’attitudine filosofica, ricca di argomentazioni pervasive e, quanto meno evidenti, tanto più significative. È un’operazione di aggiornamento della lezione di Orazio e di quel poco altro che aveva avuto realmente occasione di conoscere a Roma. Nonostante abbia certamente negli occhi il Caravaggio, Artemisia il caravaggismo lo impara a Firenze dalla collezione del granduca, che comprende Battistello Caracciolo, Bartolomeo Manfredi, Gherardo delle Notti, addolcito dai colori di Santi di Tito e del Cigoli.

Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, 1612-13; Napoli, Museo nazionale di Capodimonte.Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, 1612-1621; Firenze, Galleria degli Uffizi.

Qui sperimenta e risponde al gusto teatrale della corte medicea e, dopo varie commissioni, produce una pittura di forte impasto, di un tuono, e di un’evidenza, che spira terrore dirà il Lanzi un secolo dopo, quasi a spiegare meglio i motivi per cui poi la tela era stata confinata nelle sale più remote di Palazzo Pitti.
Rivisitazione di una Giuditta composta qualche anno prima a Roma, durante il periodo del processo, la figura proposta da Artemisia non tradisce certo tutti i tributi riconoscibili agli artisti precedenti o contemporanei.

 

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Caravaggio, innanzi tutto, di cui condivide la scelta del momento drammatico in cui fermare l’azione e da cui sono riprese le braccia tese con le maniche arrotolate, ma non lo sguardo della protagonista, che in Artemisia è più concentrato e determinato.
Poi la Giuditta/Mazzafirra di Allori, da cui viene ripresa la veste gialla di seta damascata, l’acconciatura accuratamente arricciata con il calamistro, la pesante cortina verde drappeggiata che cala sul fondo.
Infine, la Grande Giuditta di Rubens, monumentale, prorompente e maliziosa, le guance arrossate dall’impresa e dalla fiamma, ma troppo sfacciata in quel suo rivolgersi all’osservatore, ammiccante e schizzinoso insieme.
Che i due dipinti debbano essere messi in relazione con la vicenda biografica della pittrice o essere letti in chiave psicologica, è materia così sfruttata da non necessitare una riproposizione. Quel che è certo invece è che, stilisticamente, nel primo Artemisia conquista l’indipendenza e nel secondo raffina e rafforza la sua invenzione che, sempre prolifica, talvolta conduce la pittrice a un gran numero di ripensamenti, che la inducono all’impiego di cartoni, per facilitare e recuperare la buona riuscita di certi passaggi.
Benché la stessa pittrice ne ridimensioni l’uso, come dirà molti anni dopo al collezionista Antonio Ruffo, senatore di Messina.

Napoli, 13 novembre 1649.

Illustrissimo Signore mio, ho ricevuto una lettera (…) nel quale ho sentito il discorso che mi fa circa a quel Cavaliero che desidera haver quadri di mia mano, e che voglia una Galatea (…) E che la Galatea sia differente da quella di vostra signoria illustrissima non occorreva di esortarmene in questo, che per gratia di Dio e della gloriosissima Vergine vengono ad una donna che è piena di questa merentia, cioè di variar soggetti in della mia pittura; et mai si è trovato ne’ quadri miei correspondentia d’inventione etiam in d’una mano. (…) che poi voglia fare disegno e mandarlo io ho fatto voto colendissimo di non mandar mai più disegni de mio, perché mi è stato fatto bellissime burle, et in particolare hoggi al presente me ritrovo haver fatto un desegno dell’anime del Purgatorio al Vescovo di Santa Gata, il quale disegno per spender manco lo fanno fare a de un altro pittore, et quello pittore lavora sopra le fatiche meie, che fusse homo io non so come se passerebbe perché quando è fatta l’inventione, et stabilito con li suoi chiari et uscuri, e fundati sui loro piani tutto il resto ei baia (…).
P.s. Avverta vostra Signoria Illustrissima che quando io domando un prezzo non fo all’usanza di Napoli che domandano trenta e po’ danno per quattro. Io so’ romana e perciò voglio procedere sempre alla romana. [7]

Questa lettera, cosi tarda rispetto al periodo di cui ci stiamo occupando e certamente influenzata da molta auto-promozione, ci aiuta a soffermarci su alcuni particolari originali della pittura di Artemisia, belli, interessanti e presenti sin dalle prime prove.
Mai si è trovato ne’ quadri miei correspondentia d’inventione etiam in d’una mano. In effetti, le braccia e le mani di Artemisia sono forse il luogo pittorico dove la sua invenzione si esprime al meglio e traducono un mondo di linee in un mondo di affetti in atto. Le braccia e le mani dipinte da Artemisia (che qui vediamo sia in quadri giovanili che tardi) sono il centro di un agire pratico e simbolico, che riconosce ai personaggi femminili grandi capacità d’intervento, sulla spinta forte di un motore interno alimentato di impulsività o, al contrario, di ponderazione e sapienza.

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Veri e propri vettori d’energia, che talvolta tagliano o movimentano le composizioni, esse si muovono nei quadri, messe in risalto da alcuni particolari o isolate e stagliate sugli sfondi.
Insieme alle eleganti movenze delle dita o al vigore delle braccia, elementi chiave delle opere della pittoressa sono i panneggi e alcuni dettagli decorativi.
Al contrario di ciò che si potrebbe pensare, ossia a una loro funzione marginale rispetto all’economia generale del quadro, sono spesso questi a fare in modo che le composizioni, con “logica” tutta barocca, ruotino attorno a precise e inedite concentrazioni di senso, ben più che intorno ai soggetti che appaiono in primo piano. I soggetti sono tutti noti: eroine bibliche e figure del mito che, di fatto, non interessano all’autrice né ai committenti, se presi esclusivamente in relazione alla loro tradizionale cornice narrativa, didascalica e moralistica. Negli elementi che abbiamo detto, invece, risiede, ambigua, la chiave della lettura dell’immagine. Sono essi a comunicare e a raccontare in maniera tutt’altro che affabulatrice quel che si può o si deve muovere al di sotto della pelle, sia del dipinto che di chi guarda. In questo modo, i soggetti vivono di nuova passione, vibrano di un’emotività contratta e tesa, che agisce allo stesso modo in cui, ascoltando qualcuno, si percepisce l’intenzione dietro le parole e il significato nel non detto. Una vera pittura degli affetti. E quelli si, sembrano davvero essere il dato autobiografico, che passa prepotentemente dalla vita della pittrice alle sue opere.

 

Artemisia Gentileschi, Morte di Cleopatra, 1612 o 1621- 1622; collezione privata.

Artemisia Gentileschi, Morte di Cleopatra, 1612 o 1621- 1622; collezione privata.

Ancora a Roma, sulla base di una composizione già realizzata dal padre Orazio, che con ogni probabilità l’aveva presa a modella, Artemisia aveva realizzato questa Cleopatra. Audace per il nudo integrale che propone, privo di orpelli ornamentali, il dipinto colpisce per l’inconsueta raffigurazione del soggetto, che tradizionalmente viene colto proprio nell’atto di portare l’aspide al petto o subito dopo, in agonia.
Qui la figura condensa il momento che precede l’atto risolutivo in quella mano che si poggia sulla coscia e la preme, nell’indecisione di gettare via il serpente trattenuto nel pugno o invece accostarlo per riceverne il morso. Passato e futuro scorrono nella mente della regina, mentre il presente è sospeso in un attimo interminabile. Lo stesso stato mentale della protagonista viene così comunicato e la bolla di isolamento che essa stessa ha creato e che la avvolge produce la pesante cortina di velluto rosso sullo sfondo. Con la tipica ambivalenza della mentalità barocca, che poi altro non è che la nostra, l’immagine dell’opprimente conflitto potrebbe aprirsi alla sensualità di un finale sconosciuto alla storia e, scostate le tende, potrebbero entrare non le ancelle disperate e pronte a seguire la funesta sorte della regina, ma un amante che ne sventa l’orribile piano.

Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, 1612-1621; Firenze, Galleria degli Uffizi.Tornati a Firenze, con la nota Giuditta degli Uffizi, il prezioso braccialetto permette all’occhio di concentrarsi sul braccio e seguirne la linea per scoprire che in esso si concentra l’energia della protagonista, che al momento ha solo una necessità: bloccare il gigante, afferrandosi alle chiome per trattenerne la testa e farne una leva, così che la spada possa tagliare la carne e le ossa. Ci vuole concentrazione e forza, e le mani di Giuditta sono esperte e potenti come quelle di una massaia. Incrociandosi con quelle della servente e di Oloferne, serrano sulla gola di questi un’infernale stretta.

Artemisia Gentileschi, Giuditta e la fantesca Abra con la testa di Oloferne, 1617-1618; Firenze, Galleria Palatina.Cambia il momento narrativo. La fuga notturna di Giuditta e di Abra è sospesa per un momento: per chiedersi che rumore è quello che si è appena sentito e contemporaneamente ricordarsi di non indugiare, di non correre il rischio di essere scoperte. La mano sinistra di Giuditta sulla spalla di Abra trattiene dolcemente la complice curiosa, cercando di sottrarla al pericolo e al buio che potrebbe inghiottirle, ma è forte in entrambe la propensione a soffermarsi e capire. Entrambe tendono l’orecchio e lo sguardo, il collo rivolto verso l’origine del suono. Ma il vero motore di questa macchina iconografica è il turbante annodato sulla testa della figura di spalle, la cui falda scende e scompare oltre sui fianchi, arrotolandosi fin in vita. Vi è contenuto un tripudio di pieghe e di panneggi, che compete in ricchezza con le raffinate finiture e i merletti della veste di Giuditta, il cui ruolo nella centralità del dipinto è conteso proprio dalla serva, per giunta ritratta di tergo. E riscattato dal vezzo del gioiello che orna la treccia e da quell’incredibile spada poggiata sulla spalla, che narra tutta la sicurezza e la padronanza ormai guadagnate dall’impresa compiuta. La bocca socchiusa pronuncia qualche parola, la scena è interpretata alla perfezione.
Ma non si può mica sempre recitare…

Firenze 1618. Signor Maringhi,
io continuamente conosco quanto sia la superbia de Vostra Signoria, il che io ne resto molto giustificata e ringrazio Vostra Signoria, ma vollio che Vostra Signoria non sia dia tanto da intendere che io stia tanto male che li abbia a correre dietro, che è in errore forte forte, che fo sapere a Vostra Signoria che sto male quanto io vollio e che la generosità nacque meco e qui fo fine, e andate a disinare con chi voi disidarate. [8]

Stesso anno, in un biglietto scritto su un foglio ritagliato, da consegnare a mano: Venite di grazia e non mancate, subito che avete ricevuto la mia lettera, per cose d’importanza e non mancate. [9]

artemisia-gentileschi-biglietto

La vicenda fiorentina di Artemisia non può essere davvero narrata se non si fa nome dell’uomo con il quale strinse una storia d’amore, di passione e di denaro, di là da ogni teoria e da ogni convenienza. Il carteggio col nobiluomo Francesco Maria Maringhi ci conduce dentro un mondo, quello si, di affetti contraddittori, che mescolano la tenerezza all’ambizione, il desiderio all’ira e alla gelosia, la seduzione alla richiesta di protezione e di regali. Tutto sullo sfondo di una fuga repentina da Firenze, che Artemisia mette in atto per sfuggire ai debiti e agli obblighi di una corte che, stanca e in declino, non corrispondeva più alla sua necessità di commissioni e di fama.
Nuovamente a Roma, l’artista in breve conquista ciò che ha sempre inseguito: una notorietà internazionale. Lavora a ritmo incalzante, Artemisia (il marito ormai relegato a mero segretario), ma soffre la lontananza e il rovello di possibili rivali, capaci di prender posto nel cuore di Francesco; pure non rinuncia ad incalzarlo nell’aiutarla almeno a pagare l’affitto, a curare le robe lasciate in pegno a Firenze, a mediare nei rapporti col Granduca, con cui è in difetto per la partenza senza permesso e per un quadro non consegnato.
Ma ci sono anche momenti di sincera spensieratezza e di erotismo allusivo, scritti nel solito volgare tanto sgrammaticato quanto vivo.

Roma, 26 giugno 1620.

Core,

io ho ricevuto da Vostra Signoria una di quelle [lettere] che sono il mio refrigerio e che mi fanno ritornare da morte a vita, che se vi fusse noto l’allegrezza che io sento, io credo certo che s’è vero che mi volliate benne, voi parareste di allegrezza. Vostra signoria mi dice che non conosce altra donna che la sua mano dritta, da me tanto invidiata, che possiede quel che io non posso possedere io, poi mi ringrazia che li abbia offerto la mia casa. Oh, cara vita mia! Mi fate torto, ché sapete puro che so vostra sin’a che durarò avere fiato. Io non mi struggo, se non di non vedervi appresso, che sapete puro che vi aspetto come s’aspetta la grazia di dio, ché so risoluta de non fare quel negozio se non fo co’ voi, e se non veniste, mai mai non vorrei rompere la mia castità. Ma te lasso considerare a te come sto, anima mia, io in corazone non posso stare al morso quando io ricevo lettere da voi. Puro mi so mantenuta sin qui, ma difficilmente me ne dà core per l’avvenire, ché so come io sto. Vi vorrei pregare con tutto core che su quel mio ritratto voi ci fareste, ma con quella cosa che fusse impossibile che sapete che mi promettesti di non fare quello che forse Vostra Signoria fa. Io non vi ricordo se non che è uno grande peccato, e vorrei che pensaste che vollio bene alla vostra anima quanto vollio al corpo, però mio bene ringraziatevene se mi volete bene. Non [ho] altro che dire e dio vi guardi questo dì ventisei de giugno.

De Vostra Signoria tutta tutta Artemisia Lomi. [10]

 


[1] Artemisia Gentileschi, Lettere, a cura di Anne Marie Sauzeau Boetti e Eva Menzio, Abscondita, Milano 2004, p. 123.
[2] Filippo Baldinucci, Notizie de’ professori del disegno da Cimabue in qua che contengono tre decennali dal 1580 al 1610, opera postuma, Stamperia G. Manni, Firenze 1702, p. 290 sgg.
[3] Orazio Gentileschi, Lettera inviata alla granduchessa di Toscana Cristina di Lorena, 3 luglio 1612, in Artemisia Gentileschi. La pittura della passione, a cura di Tiziana Agnati e Francesca Torres, Edizioni Selene, Milano 2008, p. 8.
[4] Alexandra Lapierre, Artemisia, traduzione di Doriana Comerlati, Mondadori, Milano 1999, p. 218.
[5] Filippo Baldinucci, Notizie de’ professori del disegno…., cit., p. 300 sgg.
[6] Musica, Ballo e Drammatica Alla Corte Medicea Dal 1600 al 1637, Notizie Tratte da Un Diario, Con Appendice DI Testi Inediti e Rari by Angelo Solerti, p. 91
[7] Lettere di Artemisia, a cura di Francesco Solinas, De Luca Editori d’Arte, Parigi-Firenze Roma 2011, pp. 133-134.
[8] Lettere di Artemisia, cit. p. 20.
[9] Lettere di Artemisia, cit. p. 23.
[10] Lettere di Artemisia, cit. p. 74.

 

A proposito dell'autore

Storica dell'Arte e Scrittrice
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La linea, l'immagine, il colore sono elementi del linguaggio che l'artista usa per comunicare con noi un pensiero invisibile. Interpretarne i segni è la mia ricerca, insieme a quella di scoprire chi erano o sono i creatori, quale il loro mondo, quali strade l'arte intreccia con le nostre. Ho scritto, tra gli altri, due libri per l'editore L'Asino d'Oro; il primo dal titolo "Caravaggio, Giordano Bruno e l'invisibile natura delle cose" e il secondo, appena uscito, dal titolo "Camille Claudel".

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7 Risposte

  1. Antonio

    “Magistra artium”….basta questo appellattivo per leggere e rileggere più volte questo articolo. Che prima ancora che parlare d’arte, parla di una donna, e del suo rapporto con il potere, e il mercato, e l’economia, un mondo tutto maschile. Bellezza, giovinezza, coraggio, talento. Ingredienti rivoluzionari ora come allora, nella realizzazione piena di identità femminile. Grazie Anna Maria per questo densissimo contributo.

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    • Anna Maria Panzera

      Anche io ogni volta che rileggo quell’appellativo mi emoziono. Le “maestre” erano paradossalmente più presenti nell’Alto medioevo (ci sono bellissime storie di donne studiose e scrittrici, per esempio), ma durante il Rinascimento si perde. Eppure è l’epoca in cui in numero crescente le donne sono decisamente più istruite!
      Ma Artemisia non era istruita, non era donna d’intelletto. In quanto operante nell’universo delle botteghe d’arte (ossia lavorava!) era ancora più una straordinaria eccezione. Grazie delle tue parole e del tuo apprezzamento, Antonio!

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  2. Roberto Rizzardi

    Un “pezzo” assai completo e ottimamente costruito, se posso permettermi di dirlo.
    Ha soprattutto il pregio, ai miei occhi di incolto, di rendermi comprensibile un mondo che conosco solo superficialmente.
    Visitai, a suo tempo, la mostra che si tenne a Milano sulle opere della Gentileschi e non potei fare a meno di apprezzare la forza e il carattere che emergono così prepotentemente dai suoi dipinti, ed ora ne capisco anche il motivo.
    Una donna vera, che “l’ha fatta tutta in salita”. Non so cosa mi incanti di più, se il suo lavoro o il suo coraggio.

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  3. Roberta Maddaloni

    Grazie Anna Maria per questa meravigliosa descrizione di una donna straordinaria come Artemisia.
    Ho imparato ad amarla molti anni fa, per me lei è sempre stata un esempio di coraggio, determinazione, intraprendenza e resilienza.
    Una donna che ha sempre difeso, ad ogni costo, la sua profonda passione per l’arte e per la vita.

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    • Anna Maria Panzera

      Sono d’accordo con te Roberta, ci sono dei risvolti nella vita di Artemisia che la rendono davvero unica. Anche la sua arte credo che riservi ancora molte sorprese: il periodo napoletano, per esempio, deve restituire ancora molte notizie su tutto quanto vive sotto la pelle dei colori: incontri, reciproche influenze e contaminazioni, tecniche… vedremo, magari un passettino in quella direzione lo compiremo proprio partendo da qui.
      Grazie della tua attenzione e del tuo apprezzamento.

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  4. Giulia

    Un articolo senz’altro ben scritto e degno di una figura affascinante e spesso sottovalutata come Artemisia. Sono rimasta molto colpita dalla descrizione di questo presunto autoritratto della sua giovinezza, datato da lei al 1608, potrebbe gentilmente indicarmi la fonte? Vorrei approfondire!

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    • Anna Maria Panzera

      Salve Giulia, le ho risposto in privato. In sintesi, la fonte è il catalogo della mostra “Artemisia Gentileschi e il suo tempo”, Skira, 2016-2017.

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