Il gioco del web, come qualsiasi altro, richiede che i giocatori comprendano le regole, acquisiscano una buona esperienza e infine elaborino una strategia che li accompagni verso la vittoria

 

Immaginiamo il web come uno sconfinato territorio ancora incontaminato e abitato da un certo numero di tribù.

Se il vostro pensiero si è naturalmente rivolto a quello che era il territorio americano e al popolo indiano, direi che ci siamo… un territorio sconfinato e incontaminato abitato da un certo numero di tribù dalla cultura primordiale e affascinante. Ora cercate di immaginare quale potesse essere l’assetto interno di ognuno di loro, in rapporto con questo territorio immenso e praticamente impossibile da racchiudere in un pensiero unico.

Ecco il web, i social network e ognuno di noi.

Paragone non privo di suggestione e direi anche abbastanza calzante, se non fosse che di quella cultura non è rimasto praticamente più nulla, se non nella storia e nella cinematografia. Anche quell’immagine del territorio ormai è molto ridotta, non solo in termini “geografici”, perché non racconta l’America per come la conosciamo oggi.
A questo punto, se sono riuscita ad orientare il vostro sentire, dovreste cominciare ad avvertire una certa preoccupazione… un pericolo d’estinzione.

Ovviamente il paragone non regge completamente, ma l’immagine mi serve per introdurre un discorso che ha a che fare con il presente di tutti.
Dobbiamo cominciare a riflettere sul fatto che stare in un social network senza alcuna strategia può rivelarsi una scelta ingenua, che nei casi migliori non porta a nulla e nei peggiori conduce verso obiettivi non desiderati. Per evitarlo proseguiremo il discorso partendo dai concetti di strategia e tattica.

Se lo avete fatto possiamo intanto dirci che sui social network si può (e deve) cominciare a parlare di strategia, ma non si può parlare di  tattica. Ovvero è necessario cominciare a definire un piano d’azione a lungo termine per il raggiungimento di uno o più obiettivi, ma non si può parlare di tattica perché una vera pianificazione è impossibile, visto che le regole del gioco cambiano in continuazione.

In genere a questo punto dovremmo tirare fuori dal cappello la teoria dei giochi, sulla pianificazione dei comportamenti per il raggiungimento di un obiettivo, ma non sono molto interessata alla strategia intesa solo ed esclusivamente come analisi del contesto e definizione delle azioni per massimizzare il risultato.

Sono altresì convinta, però, che uno dei compiti da ora in poi dovrebbe essere quello di interrogarsi sugli obiettivi della propria presenza sui social network e soprattutto se stiamo mettendo in campo le nostre migliori risorse per traguardarli. Una domanda non facilissima e che può avere infinite risposte, nessuna da scartare perché “personale”. Quello che invece sarebbe da evitare è il pericolo di pensarsi agenti di un cambiamento senza aver definito un obiettivo e una strategia, senza aver osservato profondamente il luogo dove viviamo e esserci soffermati a pensare come vincere le nostre partite.

Perchè? Perchè penso che sia arrivato il momento di curarci da una certa ingenuità.

7 Risposte

  1. Gianfranco Personé

    Cara Paola, gli indiani – o meglio i pellerossa americani -, sono stati nella mia fantasia di bambino idealizzati al massimo. Colpa di Galep (Aurelio Galleppini) e Gian Luigi Bonelli che me li hanno fatti amare con il loro Tex, ovvero Aquila della Notte capo bianco dei Navajos. Per me erano coraggiosi, forti, vivevano in sintonia con la natura, ecc. I tanti film che ho visto da ragazzo li mostrava sempre cattivi e perdenti. Poi alla fine degli anni sessanta e negli primi anni settanta, per fortuna, ci sono stati film in parte riparatori. Per me bambino hanno significato molto, mi sono innamorato di loro e del loro amore per i cavalli e la loro bravura nel domarli e usarli. Me li immaginavo al galoppo nelle sconfinate prateria, sui sentieri rocciosi dei canyon, all’ombra delle foreste del nord America o del Canada; da questo è nata la mia passione per il cavallo e il suo uso per il trakking che ho potuto praticare solo passati i trenta anni (sob!).
    Questa tua similitudine, quindi, mi affascina molto e la trovo molto coerente. In effetti gli indiani sono stati sconfitti principalmente perché economicamente e tecnologicamente più poveri, ma anche perché raramente si sono uniti tra loro per combattere insieme. Quando l’hanno fatto, hanno riportato grandi vittorie come nella più celebre di tutte la battaglia di Little Bighorn, dove Lakota, Sioux, Cheyenne e Arapaho hanno sconfitto il 7° cavalleria del Colonnello George Armstrong Custer. Gli indiani erano grandi strateghi e usavano tattiche differenti a secondo delle situazioni perché avevano una superiore conoscenza del territorio. Per vincerli le “giacche blu” hanno spesso usato come guide altri indiani, sfruttando la rivalità tra tribù.
    Credo che la tua ipotesi ci consente di comprendere meglio le difficoltà che oggi abbia di ottenere il massimo rendimento dalle “praterie” della rete. Ma se non vogliamo essere “massacrati” e dispersi, o confinati in riserve di inutili social network, dobbiamo intanto unirci e puntare a qualcosa di comune che abbia consistenza e sia di rottura, di alternativo, non facilmente controllabile e utilizzabile per altri fini. In fondo noi il “territorio” lo conosciamo bene dobbiamo pensare le tattiche giuste volta per volta, sperando che “rinnegati” hacker non ci portino in bocca al “nemico”. 🙂

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    • Paola Cinti

      Si Gianfranco, l’immagine che avevo in testa è proprio quella che racconti tu. Un popolo dalle molteplici qualità e possibilità che unito avrebbe sicuramente potuto avere una sorte diversa, ma che si è perso forse perchè non si è mai confermato un proprio valore unitario.
      Sono molte le culture che hanno pagato con l’esistenza il fatto di essere diversi, ma non meno forti… e oggi mi sembra che al di là del web, tutte le realtà belle e diverse siano in pericolo.

      Sono però anche convinta che oggi Internet possa essere uno strumento strategico enorme, se abbiamo il coraggio di pensarci diversi, migliori e quindi più forti.
      L’unico vero pericolo è in quella manciata di perline colorate per cui molti si vendono, credendo nella loro magia.

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  2. Gianfranco Personé

    Passata l’emozione, che mi ha completamente preso, ho fatto “decantare” l’idea e ora provo a rilanciare ripartendo dal titolo. Strategia e tattica: il gioco del web.
    Un social network, come un sito web, non può essere considerato qualcosa che funziona solo per il semplice motivo che esiste. Per il primo bisogna tenere conto, soprattutto, che l’uomo è un animale di gruppo che cerca la conferma di se stesso negli altri, si tratta di un atteggiamento istintivo che porta tutti noi a compiere azioni che imitano e si immedesimano in quelle altrui, o viceversa a provare simpatia per chi si comporta come noi, mentre per il secondo non basta solo una bella grafica e quattro fotografie a trasmettere una precisa immagine aziendale. In entrambi i casi è necessario sviluppare nella “rete” qualcosa che riesca a trasmettere al “visitatore” delle emozioni, che lo inducano a ritrovarsi in sintonia con gli altri o con i contenuti. Quindi in entrambi i casi abbiamo un problema di strategia sia per chi li crea sia per chi vi partecipa o visita. Strategia e tattica sono strettamente collegate al gioco ma anche alla guerra. Finché il web viene considerato “gioco” possiamo farcela, ma presto potrebbe essere un campo di battaglia e non per gioco, ma per interesse; e poi il “filo spinato” della censura è sempre dietro l’angolo.
    Farò, quindi, riferimento a Facebook e Twitter perché gli altri “social” non mi sembrano altrettanto coinvolgenti e, comunque, da me meno frequentati.

    Tattica=Mi piace?

    Cosa ci spinge a fare “Mi piace” su Facebook? Ovviamente, il fatto che quell’elemento è di nostro interesse e raccoglie il nostro consenso o il nostro entusiasmo. Ma se è solo da questo che misuriamo e giudichiamo l’espansione di FB, e generalizzando dei social media, mi vien da dire che la stupidità ha raggiunto “performance” incredibili. Forse dovremmo pensare ed analizzare la cosa in modo diverso.
    Cominciamo a distinguere:
    a) i post e i tweet quelli di chi scrive di propria pugno qualcosa di originale;
    b) poi ci sono quelli di chi commenta o ripropone, ma in ogni caso in modo personale, i post di altri;
    c) la maggior parte sono quelli che pubblicano pedissequamente i post e tweet scritti da altri;
    d) categoria a parte i politici e altri personaggi pubblici che hanno bisogno perfino di qualcuno che gli curi il proprio account perché credo, in molti casi, non saprebbero nemmeno dove toccare o cliccare e, probabilmente, men che mai che scrivere.

    Quale è il nostro obiettivo: avere capacità di stimolare ed indirizzare gli “altri” a quello che riteniamo “giusto” o “vantaggioso” (e per chi)? Oppure gli “altri” devono essere solo tanti e possibilmente conosciuti (miei amici o personaggi pubblici)? La strategia si gioca tutta sul meccanismo della “fiducia”, dell’emulazione e sui numeri. Qui entra in gioco la tattica. Non è sicuro che quello che “ci piace” ci piaccia davvero, ma la riprova sociale cancella la nostra insicurezza e ci fa decidere.

    Il “gioco”, quindi che vogliamo giocare, diventa venirne influenzati o influenzare. In qualsiasi momento, nel secondo caso, possiamo – non più inconsapevolmente ma scientemente -, far pendere l’ago della bilancia di uno qualsiasi dei contatti che riceve la notifica delle nostre decisioni (iscriversi a un gruppo, diventare fan, consigliare un prodotto, ecc.).
    Quanti dei nostri amici su Facebook, sono amici di amici, che non si sono mai visti di persona. Il successo di Facebook è molto basato anche su questo… vero Paola?
    Mi preoccupa e non poco, l’uso commerciale – improntato a l’efficacia del marketing -, che sta avendo il web in generale e i social in particolare. Su Facebook ho avuto modo di esprimerti già questo concetto. “… Le capacità di motivare stimolare … vanno rindirizzate al ‘giusto’, perché l’efficace non è detto che sia utile alla ‘sopravvivenza’ umana. È la vecchia questione di bisogni e desideri. Bisogni e desideri non sempre coincidono: non è detto infatti che se un cliente ha bisogno di un qualcosa poi effettivamente quel qualcosa lo desidera anche e viceversa. Spesso un mercato è disposto a spendere soldi per soddisfare un desiderio, ma non è disposto a spendere soldi per soddisfare un bisogno. I bisogni sono innati nell’uomo, ma i desideri sono frutto della società. Se la società è questa si finisce per vivere del superfluo e si dimenticano i bisogni primari, la logica capitalistica portata all’esasperazione, il mercato al centro e non l’uomo. … professionisti e manager ‘illuminati’ dovrebbero rindirizzare le loro capacità per rendere più vivibile e ‘giusta’ la nostra esistenza.”
    A questo punto mi verrebbe da introdurre il concetto di “egemonia” da affiancare a quello di tattica, ovvero l’idea che le norme culturali prevalenti non debbano essere viste come “naturali” o “inevitabili” ma possono essere indirizzate e guidate.
    Il neo liberismo e il mercato globale, che ha affascinato tanti anche a sinistra, sta mostrando il suo vero volto: distruggere le tutele sociali degli Stati Nazionali e le loro autonomie politico-economiche.

    Per tornare alla tua ipotesi iniziale “egemonia” dell’uomo bianco nel vecchio Far West ha tenuto separate le razze, emarginate e divise le tribù, per poi distruggere la loro cultura, il loro sostentamento e appropriarsi facilmente dei loro territori.

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  3. Antonio

    Leggo e rileggo l’articolo ed i commenti. Quanta “roba”!!
    Ma poi per me l’essenza dell’articolo è la proposizione che “stare sui social network”, prima ancora che un “fare”, è proprio un modo di “essere”. E’ un vero e proprio “esserci”, con tutto quel che si lega a questo modo di dire. E’ prima ancora che un fatto di sottile e profonda distinzione tra strategia e tattica, “semplicemente” un fatto di “assetto interno” rispetto al proprio personale modo di “essere nel mondo”. Un mondo che oggi è più grande grazie alla rete. Insomma, tutto da approfondire. E diffondere.

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  4. Roberto Rizzardi

    Ho pensato a lungo (e lo si vede dalla data del commento che mi precede) al tema proposto da Paola, interessante come sempre. Ho atteso a lungo di riuscire a sincronizzarmi con i mood emersi, ma non credo di esservi riuscito. Quello che mi accingo ad esporre non è molto organico, riflettendo la mia non troppo chiara visione del fenomeno web, e denuncia il mio stato di newcomer sulla scena.
    Antonio dice che si tratta di “essere e non di fare” e penso che abbia centrato un importante aspetto della questione. Ebbene io penso di essere proprio in mezzo al guado tra le due cose, in una posizione da cui posso accedere ad un mondo vastissimo, ma non in modo propriamente confortevole.
    Ho un’età che mi pone tra quelli che hanno ricevuto un imprinting da un mondo dove i media corrispondevano alla carta ed alle trasmissioni radiofoniche. Il mezzo televisivo, che in Italia condivide con me l’anno di nascita, in casa mia è entrato con grande ritardo, per questioni economiche essenzialmente, come del resto è avvenuto nella gran parte delle famiglie a quel tempo.
    L’ambito informatico è stato da me acquisito, con entusiastica fiducia, nella tarda adolescenza ed in tempi di schede perforate e “cervelli elettronici” giganteschi e rumorosi. Sono stato l’orgoglioso possessore di un clone cinese di un Apple II , un Lemon (sic!), ma fino a pochi anni fa per me PC significava un meraviglioso attrezzo versatile e potente, non il ponte verso una comunità smisurata.
    Il mio approccio da “ragazzo” degli anni ’50 non mi portava a valutare come appetibile il web, bastandomi la comunità di amici e colleghi che frequentavo giornalmente e di persona. Ora che non sono più un lavoratore attivo, che vivo in un piccolo paese e che il mio giro di frequentazioni, in gran parte, è rimasto sull’altra riva del fiume, ho sentito il bisogno di ovviare al mio isolamento accedendo al mondo dei social forum. L’ho fatto facendomi guidare da mia figlia che, ovviamente, gode di un imprinting totalmente diverso dal mio, ma continuo a pormi come se fossimo in un luogo fisico anziché virtuale.
    Il mio modo “nativo” di comunicare e di agire socialmente, quello che sento come istintivo, è basato sulla lettura di testi, su di un tempo fisiologico e tipicamente prolungato di elaborazione del concetto e sull’interazione dialettica con persone reali in cui il linguaggio corporeo, e l’intonazione della voce, costituivano parte integrale e ricca d’informazione del processo di comunicazione. Tutte cose che, in genere, non avvenivano simultaneamente.
    Già la televisione costituì una drammatica implementazione con la nascita del concetto di “tempi televisivi”. Un concetto, questo, che venne estremizzato dalla cosiddetta televisione commerciale e che impose la necessità di esprimere idee e posizioni in forma sintetica, televisiva appunto, con forte compressione dell’articolazione del pensiero e conseguente alta possibilità di perdita di ricchezza ed eccessiva semplificazione, quando non banalizzazione o stravolgimento.
    Mi si obietterà che la lettura non dipende dal supporto, si legge la pagina di un libro più o meno come si legge un post e ciò, apparentemente è vero. La differenza sta, credo, nel come un testo è stato scritto, sotto quale imperativo stilistico e convenzione espositiva lo si è concepito e quale scopo vuole conseguire.
    Ricordo quando mia figlia, ancora al liceo, sbuffava spazientita leggendo qualche romanzo ottocentesco assegnatole dalla prof. Leggeva tutte quelle particolareggiate descrizioni paesaggistiche, quelle puntuali descrizioni somatiche o di portamento, quelle esposizioni puntuali e meticolose di atti e interazioni ed alzava gli occhi al cielo chiedendosi quando si sarebbe venuti al dunque. Mia figlia, mi si creda, non è superficiale o tetragona allo stile ed alla bellezza, semplicemente, essendo cresciuta nella società dell’immagine e dei media facilmente riproducibili e prontamente fruibili, non riusciva a contestualizzare facilmente l’opera e soffriva per uno stile che, ai suoi occhi, appariva datato e non necessario. Sospetto che anche un contemporaneo di Manzoni o di Pellico proverebbe molto disagio se esposto ai criteri comunicativi odierni.
    Quello che intendo dire è che ad ambienti mediatici differenti si attagliano stili comunicativi e usi e costumi differenti e che è impegnativo, per chi vive le età di mezzo, compiere la transizione acquisendo una naturale confidenza. Tanto per fare un piccolo esempio, quando incorro in un troll mi monta il sangue alla testa, mentre mia figlia fa spallucce e li classifica con gelido disprezzo tra gli stronzi. Per me si tratta di spregevoli provocatori che si nascondono vigliaccamente dietro la distanza e l’anonimato; se fossimo di persona se ne starebbe zitto oppure lo prenderei a calci nel culo. Mia figlia li relega nel rumore di fondo, io mi sento frustrato. Sono rimasto indietro evidentemente.
    Comunque, indipendentemente da quanto ci si sia impadroniti del mezzo, il web ed i social forum sono qui e sono una parte qualificante della nostra realtà. E’ giusto porsi il problema della “tattica “ e della “strategia” che la loro frequentazione pone perché, in fondo, è quello che sempre facciamo con gli elementi rilevanti nelle nostre esistenze.
    Innanzitutto: perché siamo presenti nei social forum? Credo che due siano gli scopi principali. Il primo scopo consiste nel mantenersi all’interno di una comunità fruendo dell’apporto che questa può dare e ciò può limitarsi ad una presenza passiva. La seconda possibilità risiede nella volontà di proiettare all’esterno un pensiero, un’azione o anche un prodotto, reale o no. In questo caso ovviamente la passività scompare.
    Nel primo caso, vista la subalternità all’iniziativa altrui, una strategia non è realmente necessaria, in genere ti adegui a quella con cui vieni a contatto e anche di tattica forse non è necessario parlarne più di tanto. Tuttalpiù si tratta di adottare specifiche di progetto e di dimensionare gli accessi. Si può fare come quei personaggi che, in una discussione, non prendono mai la parola ed ascoltano con cenni della testa ed espressioni più o meno significative. Sono quei personaggi che, spesso, quando poi si esprimono ti sorprendono con la loro particolare acutezza.
    Nel secondo caso invece una strategia è necessaria, ma non credo che il contesto virtuale abbisogni di particolari declinazioni di tale dimensione. Le strategie possibili sono in gran parte state elaborate già da prima della rivoluzione 2.0 e sono sempre valide. Quello che cambia e che è peculiare del WEB è l’armamentario dell’espressione comunicativa, i “mi piace”, gli emoticon, le convenzioni espressive, la sapiente costruzione di un modus accattivante, in grado di sostituire la potenza evocativa della voce e l’azione chiarificatrice del linguaggio corporeo. Credo che sia più calzante parlare di una prassi.
    Per la tattica ha ragione Paola. La volatilità dell’ambiente e la molteplicità dei possibili aspetti ne rendono velleitaria la ricerca. Penso che si debba fare quello che Clint Eastwood dice nei panni di Gunny: “improvvisare, adattarsi, raggiungere lo scopo”.

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  5. Paola Cinti

    wow…. io mi sono riletta tutti i commenti e, sicuramente influenzata anche da quello che ho letto su Long Life, provo ad approfondire il discorso cominciando da una proposizione: dobbiamo essere più intelligenti di loro.

    Quando parlo di strategia intendo una cosa estremamente più semplice di quella che può sembrare. Parlo di una profonda consapevolezza del proprio percorso e dei propri obiettivi.
    Sui social network si può stare in due modi essenzialmente: entri, ti guardi intorno, agisci ed esci oppure ti poni degli obiettivi, entri, ti guardi intorno e agisci. Solo questo. Proprio per evitare di replicare il rapporto con la TV.

    Secondo: il rapporto che i giovani hanno con la tecnologia è sicuramente migliore del nostro ed è un enorme vantaggio, ma il discorso è identico: con quali obiettivi? e con quale strategia?
    Tempo fa ho scritto questo post sull’insufficienza dell’innovazione proprio per dire che tutto ciò che è nuovo ha bisogno di una direzione per diventare progresso, altrimenti è solo nuovo.

    E poi l’età: dai, mi viene da ridere… sembra un altro problema creato ad arte per replicare alcune dinamiche. L’età è una realtà imprescindibile, su cui non possiamo farci nulla; se qualcuno decide di farla diventare una malattia o anche solo un disturbo, ti dice anche che è incurabile. Nessuno può regalarci 10 anni di meno ed è per questo che non ha senso parlarne. L’importante è e rimane la capacità di vivere il presente, qualità rarissima e che ha solo in piccola parte a che fare con la tecnologia, ma ha molto a che fare con l’intelligenza e la sensibilità.

    Infine e a costo di sembrare rivoluzionaria: io voglio sedermi al tavolo a giocare la mia partita, ma da esso la categoria dei bari è bandita. E comunque, in ogni caso, da questo momento sul tavolo di gioco mi siedo io, niente deleghe totali alle politiche, alle organizzazioni, ai capi.
    In uno degli ultimo commenti che ho letto su Long c’è scritto “Così le persone dovranno pensare a soluzioni e nuovi rapporti di lavoro con le aziende” ed ha ragione, anche se sospetto che abbiamo due idee diverse di ciò che questa frase può comportare.

    Quindi, cari signori, il tavolo di gioco è sempre aperto… ma non per tutti 🙂

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  6. Roberto Rizzardi

    Si certo, ne convengo, dico solo che l`età può certamente essere un limite, se hai voglia di pensarlo, ma è sempre e comunque una caratteristica. Lo è non tanto per il fatto anagrafico, quanto per la cultura che ti porta ad esprimere e per la `leggibilità` che questa ha intrinsecamente nei confronti di chi ti ascolta.
    Credo che nell`equazione `strategia` questo abbia un peso. Io penso di aver optato per entrare, guardarmi intorno ed agire. Nutro anche l`ambizione di massimizzare questa prassi. Sono prolisso, mi piace piacere, ma non è solo narcisismo il mio. Ho sempre pensato che `devi` a chi ti sta intorno un contributo anche propositivo e di natura intellettuale. Ma se non sono capace di creare un ponte tra me e chi mi ascolta, ebbene allora ho fallito e questo problema lo avevo anche quando il mio uditorio era molto più piccolo. È per questo che ritengo che le strategie, concettualmente, non siano poi così differenti rispetto ad un tempo. Sono gli strumenti attuativi che devono essere adeguati, insieme alla cognizione situazionale, ma forse sto solo usando termini diversi per esprimere gli stessi concetti.

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