C’era una volta… Ombre rosse Gianfranco Personé Settembre 15, 2016 Another point of view 6 26056 Fin da piccolo, quando giocavo da solo sul lettone di mamma e papà agli indiani e ai cowboy , guardandomi allo specchio sotto la tenda fatta con il lenzuolo, entravo nella parte ed ero “quello sporco indiano”. Se qualche volta, accompagnato da mia madre, andavo a villa Lazzaroni o a villa Fiorelli e mi capitava di giocare in gruppo con qualche coetaneo, finivo sempre “ammazzato” perché ero l’unico disposto a fare… l’indiano. Prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo in America la popolazione degli indiani – così chiamati perché il navigatore genovese credette di essere giunto in India -, assommava a milioni di persone. Stime parlano di 50 – 100 milioni di individui che nell’arco di cinquecento anni perirono. Le origine degli indiani d’America, detti anche pellerossa o nel centro e sud America indios e amerindi, si perdono nella notte dei tempi, probabilmente circa 14.000 anni fa, quando il ponte terrestre dello stretto di Bering era scoperto; lungo questo ponte, dalla Siberia giunsero i primi rappresentanti dell’Homo Sapiens Sapiens: erano intere famiglie di cacciatori che seguivano la grossa selvaggina. In seguito le acque sommersero questa striscia di terra isolando completamente il continente americano. Di Carl Werntz: Apache girl with basket, ca. 1902, Copyprint of Library of Congress Quegli uomini primitivi avevano la capacità di adattarsi a ogni tipo di ambiente e situazione che ha permesso loro di spingersi sempre più a sud e di proliferare ovunque. Alcuni gruppi di ricerca ritengono che le popolazioni americane si dividano in tre gruppi pre-europei ben distinti: paleoindiani (Pluebo, Pinna, Pai); la famiglia linguistica athapaskan (Apache e Navajo); gli Eskimo-Aleuti. Solo i primi si spinsero nell’America centrale e meridionale, sviluppando poi società stanziali, complesse e organizzate. Le popolazioni del nord invece, pur provenienti da un unico ceppo, si erano diversificate per abitudini di caccia e di raccolta per via dell’adattamento a situazioni ambientali e climatiche molto differenti. Probabilmente intorno all’anno mille quelli che si erano insediati nella costa nordatlantica vennero a contatto per la prima volta con individui non indigeni: i vichinghi. Dopo l’arrivo di Cristoforo Colombo il Nuovo Mondo conobbe nel corso del XVI secolo un notevolissimo crollo demografico della popolazione indigena, principalmente dovuto alla diffusione di patologie non curabili quali il vaiolo, l’influenza, la varicella, il morbillo. Queste patologie vennero inconsapevolmente portate dagli europei e dai loro animali, quando sbarcarono e si stabilirono nel nuovo continente. Ma poi furono utilizzate anche in maniera conscia, come armi che hanno contribuito, insieme ai massacri e alla riduzione in schiavitù, al più vasto genocidio mai attuato sulla terra. Si trattava di malattie pressoché inesistenti in America e, mentre le popolazioni di Europa, Asia e Africa avevano sviluppato anticorpi specifici contro di esse, gli indiani si trovarono del tutto inermi di fronte ad esse. Pertanto, questi si ammalarono rapidamente e morirono senza poter fare niente. Dopo il devastante passaggio del vaiolo, morbillo e dei conquistadores la popolazione indigena (aztechi, inca e maya) era notevolmente ridotta o scomparsa. Qualche secolo più tardi quindi, l’arrivo degli europei mutò il volto dell’intero continente e la vita delle popolazioni indigene anche al nord. Dopo i vichinghi, gli inglesi, i francesi e gli spagnoli esplorarono le coste americane, quindi vi si stabilirono in modo permanente. Giunsero poi i coloni, missionari ed esploratori, diffondendo malattie, distruzioni, disordini che sconvolsero la vita tradizionale degli indiani d’America. Francesi e inglesi si facevano la guerra per la conquista di territori sfruttando la rivalità tra diverse tribù mettendoli gli uni contro gli altri. La popolazione dei nativi dell’attuale USA poteva essere tra i 5 e i 10 milioni di individui, ma già nel 1890 erano meno di 250.000. Più o meno nello stesso periodo la popolazione bianca passo da 0 a 75 milioni. Guerrieri Navajo al loro arrivo a Fort Summer (1864) Mentre si svolgeva questo processo, i bianchi occuparono abusivamente i territori ancestrali degli indiani stabiliti da secoli nel continente e distrussero sia il delicato equilibrio della loro economia, sia i remoti sistemi di vita. Avvenimenti fondamentali come la rimozione delle tribù suborientali in quello che veniva definito Territorio Indiano (futuro stato dell’Oklahoma) nel 1830, la lunga marcia dei navajo fino a Fort Summer, dove furono imprigionati, nel 1864 e la tragedia di Wounded Knee nel 1890, caratterizzarono l’avanzata di una nuova cultura che, alla fine del secolo scorso, ne aveva spietatamente distrutta una molto antica. Era la primavera del 1979 prendevo, ormai da mesi, il treno alla stazione di Torricola per recarmi ad Anzio dove lavoravo e, da qualche tempo, avevo fatto conoscenza con un altro pendolare che saliva in quella stazione con me, era il direttore sanitario dell’ospedale di Anzio-Nettuno. Ricordo che all’epoca leggevo sul treno “Seppellite il mio cuore a Wounded Knee” di Dee Brown e il nuovo conoscente un giorno mi disse: “Perché perdi tempo a leggere la storia di un popolo che non avrebbe comunque avuto posto nel mondo? Se sei interessata alla storia dei popoli che hanno fatto la storia, leggiti ‘La repubblica romana’ di Joseph Vogt.” Quando il generale romano Caio Mario sconfisse i Cimbri, nel 101 A.C., quell’orgoglioso popolo uscì per sempre dalla storia e si perse la memoria delle loro virtù belliche, delle armi e dei carriaggi, delle trecce femminili, dell’indole incapace di vivere in servitù. Agli indiani o ai “pellerossa” del cinema in bianco e nero divenuti “nativi” nell’era del politically correct , è invece toccata in sorte l’estinzione culturale se non quella fisica. Negli anni Settanta la mia generazione si commuoveva e appassionava con Dustin Hoffman, indiano adottivo nel film “Il piccolo grande uomo” o con il film “Soldato blu” entrambi del 1970. Erano gli anni in cui i “visi pallidi” defoliavano le giungle indocinesi con “Agent Orange” dalle diossine altamente tossiche e carbonizzavano donne e bambini con il napalm, insomma la ripetizione in scala industriale di quello fatto alle tribù di Toro Seduto, ai Nasi Forati di Capo Giuseppe, ecc.. Poi c’è tutta una filmografia che va da “Un uomo chiamato cavallo” (1970) passando per “Io grande cacciatore” (1979) fino al pluripremiato “Balla coi lupi” (1990) che prova a ridare una visione meno di parte dei pellerossa che non siano il vecchio classico “L’unico indiano buono è un indiano morto”. Anche se ritengo giusto non mitizzare eccessivamente la storia di questi popoli è innegabile che essi siano stati distrutti, massacrati e più volte ingannati; molte “nazioni” indiane non esistono più. Agli indiani gli si chiedeva di rispettare i trattati che per primi i bianchi non rispettavano; costretti a trasferirsi forzatamente in riserve spesso in terre impervie e poco accoglienti, costretti a difendersi e a uccidere per sopravvivere. Anche le atrocità ad essi imputate sono state apprese dai bianchi che per primi ebbero l’idea di scalpare gli indiani o di mutilare i corpi come faranno in seguito gli Apache. Nel giro di pochi secoli, l’antico modo di vivere in armonia con la natura dei pellerossa venne cancellato per sempre. Per anni sono stati vessati, costretti ad abbandonare le loro tradizioni, a vivere in luoghi chiusi, a vestirsi in modo occidentale, ad abbandonare la loro spiritualità naturale, il loro animismo per convertirsi – spesso forzatamente – alla religione cristiana, alienandoli e facendoli cadere in stati depressivi al limite della pazzia o favorendo un alcolismo sfrenato. Fortunatamente in seguito, le trasformazioni avvennero più lentamente e vennero in parte mitigate dalla riscoperta della loro cultura. Infatti dopo la seconda guerra mondiale si diffuse la consapevolezza della natura multiculturale della società americana. Nacque così un nuovo interesse per i vari gruppi etnici del paese, mentre aumentava il mercato per gli oggetti d’arte e artigianato indiano, gli indiani stessi stanno ricercando la loro identità culturale. In particolare dagli anni settanta in poi ci sono state anche numerose proteste, da parte dei nativi e dei loro simpatizzanti, per il mancato rispetto dei trattati e delle loro richieste politiche e sociali, come l’occupazione di Wounded Knee nel 1973 e la simbolica marcia su Washington. Nello stesso anno, l’attore Marlon Brando, sostenitore della causa dei nativi, rifiutò di ritirare il premio Oscar ricevuto per la sua interpretazione de Il padrino in segno di protesta, mandando al suo posto una giovane attivista di origine apache che lesse, in abiti tradizionali, un comunicato dell’attore. Monument Valley, gestito dagli indiani della riserva Navajo, si trova al confine fra Arizona e Utah. Attualmente, ci sono più di un milione e mezzo di indiani negli Stati Uniti, si parlano ancora più centinaia di lingue diverse. Alcuni Indiani sono riusciti a migliorare il tenore di vita sfruttando le fonti naturali della terra come il petrolio, dedicandosi al turismo, all’artigianato e costruendo case da gioco nelle loro riserve, ma la maggior parte conduce tutt’ora una vita molto misera e semplice nell’isolamento rispetto al resto della popolazione. Pochi nativi, forse grazie all’istruzione, sono riusciti ad integrarsi completamente, o quasi, nella società dei bianchi. Esistono circa 300 riserve federali degli Stati Uniti e ci sono anche 21 riserve statali degli Indiani. Alcune riserve sono limitate a una sola tribù di nativi. La più grande riserva è mantenuta oggi dalla tribù Navajo, all’interno della quale c’è il parco della Monument Valley, che è una meraviglia unica della natura ed è uno dei simboli degli Stati Uniti conosciuto in tutto il mondo grazie anche agli innumerevoli film che vi sono stati girati. Nel rapporto attuale tra il governo federale e le tribù, a seguito di trattati, il Congresso degli Stati Uniti è il fiduciario dello status speciale indiano e questo comporta la protezione della proprietà indiana, delle riserve, la protezione del diritto indiano di auto-governo e la fornitura di servizi necessari per la sopravvivenza e il progresso. Gli indiani, teoricamente, sono liberi di vivere ovunque. Si stima che circa il 30% della popolazione indiana negli Stati Uniti, ora viva nelle città. Più o meno un’analoga situazione c’è anche in Canada. Alla fine del XX secolo, anche gli indios riusciranno, in alcuni paesi del sud America, come la Bolivia, a ricercare un certo potere politico e di rappresentanza, migliorando in parte le loro condizioni di vita. Inoltre si ritiene che circa il 15% per cento della popolazione totale oggi in Messico sia indiana. Sono discendenti diretti delle civiltà azteca, maya e altre civiltà antiche. Alcuni sono piccoli gruppi che vivono in un isolamento auto-sufficiente. Anche in Perù circa la metà della popolazione è indiana, discendente dagli Inca. Queste persone praticano ancora la propria lingua, cultura e religione. Inoltre in tutto il centro e sud America esistono moltissimi individui di razza meticcia. Testi di approfondimento: Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, Dee Brown, Arnoldo Mondadori Editore, 1972 Storia degli Indiani d’America, Philippe Jacquin, Oscar Mondadori, 1976 Sul sentiero di guerra – Scritti e testimonianze degli Indiani d’America, a cura di Charles Hamilton, Feltrinelli, 1977 Indiani d’America – Tribù, storia, cultura, vita quotidiana, consulente editoriale Colin F. Taylor, consulente tecnico William C. Sturtevant curatore della sezione di Etmologia nordamericana della Smithsonian Institution, Idea Libri, 1992 Comunque e dovunque i nativi affrontano oggi tante sfide. L’espansione europea ha modificato molti aspetti della vita dei pellerossa, ma mai completamente. Essi vivono sia in riserve isolate, sia in città, perché si sentono comunque membri di due mondi e vogliono sopravvivere in entrambi. Lottano comunque per l’indipendenza economica e politica e per l’autodeterminazione. Per concludere, gli indiani americani, in particolare i pellerossa, oggi sono conosciuti e ricordati in tutto il mondo come figure storiche eroiche e romantiche che hanno combattuto, attraverso l’abilità e il coraggio, le forze schiaccianti degli invasori bianchi. Essi rappresentano, in una concezione un po’ idilliaca, anche esseri che erano in sintonia con sé stessi, gli uni agli altri e la natura. Sicuramente equilibrio e armonia sono concetti che facevano e fanno parte del loro stile di vita e della loro cultura. Vivendo noi in una società sommersa da danni ecologici, disastri ambientali, cibi adulterati, effetto dello sfruttamento capitalistico, lo stile di vita degli indiani, in sintonia con madre natura, potrebbe servire come modello per la sopravvivenza. Non sono certo dell’autenticità e dell’attribuzione della frase seguente, ma ritengo molto probabile che sia stata pronunciata da lui o da un altro capo indiano. Quando avrete abbattuto l’ultimo albero, quando avrete pescato l’ultimo pesce, quando avrete inquinato l’ultimo fiume… allora vi accorgerete che il denaro non si può mangiare. (Toro Seduto) 6 Risposte Paola Cinti Settembre 19, 2016 Ormai storia per molti, il tuo articolo è importante per confrontarci con quelle stesse dinamiche che, anche se in modo diverso, si ripropongo ancora oggi verso tutte quelle etnie, popolazioni o generi con cui non riusciamo a confrontarci perché diversi da noi oppure semplicemente perché vengono considerate sacrificabili in quanto inferiori. Rispondi Gianfranco Personé Settembre 19, 2016 Grazie ancora una volta Paola per ospitarmi nel tuo sito e per aver colto il senso principale dell’articolo. La storia, è risaputo, la scrivono i vincitori e non i vinti. Bisogna saper leggere o rileggere tra le righe dei libri di storia. La mistificazione fatta sui nativi americani, soprattutto dal cinema in bianco e nero negli anni ’30 e ’40 e solo parzialmente rivista successivamente, aiutava a creare l’epopea dei coloni bianchi, forti e instancabili lavoratori, pronti a lottare con la natura selvaggia e i selvaggi, ma comunque difesi da un esercito (le famose giacche blu) pressoché invincibile e tesi a realizzare la fondazione di uno Stato che proteggeva i membri di una società portatrice di progresso e civiltà. Il fatto è che “gli uomini bianchi” si sono comportati in Africa e in Asia proprio come in America. Hanno causato il crollo e la scomparsa di numerose civiltà, ognuna delle quali a suo modo possedeva un suo equilibrio sociale e culturale da essi disprezzato. Non hanno mai provato a includere e comunque rispettare gli altri popoli, le altre culture, convinti come erano della superiorità della loro civilizzazione e non accettando l’idea di pluralismo. Noi occidentali oggi, come ormai da secoli e spesso solo con la forza delle armi, esportiamo la democrazia, il progresso, la nostra civiltà. Ovvero una società basata sul consumo, che porta allo sperpero più sfrenato delle risorse naturali, all’inquinamento. Una società dominata dall’autoritarismo e dalla repressione, anche se rivestita a parole di democrazia (ma – di fatto – solo a vantaggio di pochi), ossessionata dall’ipervalorizzazione del lavoro, del progresso che ci ha reso tutti schiavi del tempo. Ecco che la riscoperta della cultura dei nativi americani ci può aiutare a ritrovare quella libertà, l’equilibrio dello spirito e quella armonia con la natura. Voglio concludere questo mio ulteriore intervento, in risposta alla tua puntuale osservazione, con le parole del ex presidente uruguaiano José Mujica (guarda caso America del sud) : “Quello che alcuni chiamano crisi ecologica del pianeta è una conseguenza dell’immenso trionfo dell’ambizione umana: è il nostro trionfo, ma anche la nostra sconfitta.” Rispondi Paola Cinti Settembre 20, 2016 … integrerei questo tuo approfondimento con la considerazione che queste dinamiche sono sempre più presenti anche nel mondo del lavoro e nei rapporti personali. Una vera e propria epidemia. Rispondi Roberto Rizzardi Settembre 20, 2016 Un excursus alquanto necessario non solo per rifocalizzare eventi e processi già sviluppatisi Gianfranco, ma come dici nel tuo commento, anche per sottolineare che certi meccanismi sono ancora attivi, e anche se certe logiche sono state attuate altrove – Africa e Medio Oriente, ma non solo – le finalità sono sempre le stesse: assicurare i propri interessi a discapito di altri. Sono esistite, ed esistono, anche altre culture che fanno della razzia il proprio modus operandi, ma solo quella occidentale ha saputo darsi gli strumenti e la potenza, militare ed economica, per imporsi su scala mondiale. Il razziatore mette a ferro e fuoco la valle che percorre, per poi spostarsi altrove, ma noi stiamo sterilizzando l’unico posto dove possiamo stare. Rispondi Anna Maria Panzera Settembre 20, 2016 E’ un articolo che proporrò ai miei alunni di quarta. Proprio oggi abbiamo parlato di Cristoforo Colombo e la prima curiosità è stata per loro, per gli “indiani” che si sono dovuti tenere questo nome improprio, per gli indiani che…”ma come ci sono arrivati gli indiani in America, prof? Ce li ha portati la scienza?”. Alla domanda apparentemente banale, a quella apparentemente scorretta avrei voluto rispondere: si, ce li ha portati la scienza, o meglio la logica del profitto e dell’aggressione così cara agli occidentali, che li ha voluti “indiani”, “selvaggi”, “non civilizzati”, “inutili”, etc.etc. Le domande “sbagliate” a volte aiutano a dare risposte giuste; abbiamo corretto insieme il tiro, abbiamo parlato della specie umana e del suo lungo cammino. Grazie del bell’articolo, è materiale su cui lavorare e imparare. Rispondi Gianfranco Personé Settembre 20, 2016 Grazie a te e lieto di poter contribuire all’apprendimento dei giovani. Quando facevo formazione molti mi dicevano: “Scusi posso fare una domanda stupida?” e solitamente rispondevo: “Non ci sono domande stupide, ma spesso lo sono le risposte.” 😉 Rispondi Scrivi Cancella commentoLa tua email non sarà pubblicataCommentaNome* Email* Sito
Paola Cinti Settembre 19, 2016 Ormai storia per molti, il tuo articolo è importante per confrontarci con quelle stesse dinamiche che, anche se in modo diverso, si ripropongo ancora oggi verso tutte quelle etnie, popolazioni o generi con cui non riusciamo a confrontarci perché diversi da noi oppure semplicemente perché vengono considerate sacrificabili in quanto inferiori. Rispondi
Gianfranco Personé Settembre 19, 2016 Grazie ancora una volta Paola per ospitarmi nel tuo sito e per aver colto il senso principale dell’articolo. La storia, è risaputo, la scrivono i vincitori e non i vinti. Bisogna saper leggere o rileggere tra le righe dei libri di storia. La mistificazione fatta sui nativi americani, soprattutto dal cinema in bianco e nero negli anni ’30 e ’40 e solo parzialmente rivista successivamente, aiutava a creare l’epopea dei coloni bianchi, forti e instancabili lavoratori, pronti a lottare con la natura selvaggia e i selvaggi, ma comunque difesi da un esercito (le famose giacche blu) pressoché invincibile e tesi a realizzare la fondazione di uno Stato che proteggeva i membri di una società portatrice di progresso e civiltà. Il fatto è che “gli uomini bianchi” si sono comportati in Africa e in Asia proprio come in America. Hanno causato il crollo e la scomparsa di numerose civiltà, ognuna delle quali a suo modo possedeva un suo equilibrio sociale e culturale da essi disprezzato. Non hanno mai provato a includere e comunque rispettare gli altri popoli, le altre culture, convinti come erano della superiorità della loro civilizzazione e non accettando l’idea di pluralismo. Noi occidentali oggi, come ormai da secoli e spesso solo con la forza delle armi, esportiamo la democrazia, il progresso, la nostra civiltà. Ovvero una società basata sul consumo, che porta allo sperpero più sfrenato delle risorse naturali, all’inquinamento. Una società dominata dall’autoritarismo e dalla repressione, anche se rivestita a parole di democrazia (ma – di fatto – solo a vantaggio di pochi), ossessionata dall’ipervalorizzazione del lavoro, del progresso che ci ha reso tutti schiavi del tempo. Ecco che la riscoperta della cultura dei nativi americani ci può aiutare a ritrovare quella libertà, l’equilibrio dello spirito e quella armonia con la natura. Voglio concludere questo mio ulteriore intervento, in risposta alla tua puntuale osservazione, con le parole del ex presidente uruguaiano José Mujica (guarda caso America del sud) : “Quello che alcuni chiamano crisi ecologica del pianeta è una conseguenza dell’immenso trionfo dell’ambizione umana: è il nostro trionfo, ma anche la nostra sconfitta.” Rispondi
Paola Cinti Settembre 20, 2016 … integrerei questo tuo approfondimento con la considerazione che queste dinamiche sono sempre più presenti anche nel mondo del lavoro e nei rapporti personali. Una vera e propria epidemia. Rispondi
Roberto Rizzardi Settembre 20, 2016 Un excursus alquanto necessario non solo per rifocalizzare eventi e processi già sviluppatisi Gianfranco, ma come dici nel tuo commento, anche per sottolineare che certi meccanismi sono ancora attivi, e anche se certe logiche sono state attuate altrove – Africa e Medio Oriente, ma non solo – le finalità sono sempre le stesse: assicurare i propri interessi a discapito di altri. Sono esistite, ed esistono, anche altre culture che fanno della razzia il proprio modus operandi, ma solo quella occidentale ha saputo darsi gli strumenti e la potenza, militare ed economica, per imporsi su scala mondiale. Il razziatore mette a ferro e fuoco la valle che percorre, per poi spostarsi altrove, ma noi stiamo sterilizzando l’unico posto dove possiamo stare. Rispondi
Anna Maria Panzera Settembre 20, 2016 E’ un articolo che proporrò ai miei alunni di quarta. Proprio oggi abbiamo parlato di Cristoforo Colombo e la prima curiosità è stata per loro, per gli “indiani” che si sono dovuti tenere questo nome improprio, per gli indiani che…”ma come ci sono arrivati gli indiani in America, prof? Ce li ha portati la scienza?”. Alla domanda apparentemente banale, a quella apparentemente scorretta avrei voluto rispondere: si, ce li ha portati la scienza, o meglio la logica del profitto e dell’aggressione così cara agli occidentali, che li ha voluti “indiani”, “selvaggi”, “non civilizzati”, “inutili”, etc.etc. Le domande “sbagliate” a volte aiutano a dare risposte giuste; abbiamo corretto insieme il tiro, abbiamo parlato della specie umana e del suo lungo cammino. Grazie del bell’articolo, è materiale su cui lavorare e imparare. Rispondi
Gianfranco Personé Settembre 20, 2016 Grazie a te e lieto di poter contribuire all’apprendimento dei giovani. Quando facevo formazione molti mi dicevano: “Scusi posso fare una domanda stupida?” e solitamente rispondevo: “Non ci sono domande stupide, ma spesso lo sono le risposte.” 😉 Rispondi