Questo articolo trae spunto dalla recente pubblicazione del mio libro Camille Claudel, edito dalla casa editrice L’Asino d’Oro, e dai numerosi incontri che continuano ad arricchire la mia ricerca su questa scultrice, artista e donna.

 

Novembre 1938. Lettera di Camille Claudel, 74 anni, internata al manicomio di Montdevergues (Montfavet) dal 1914.

Mio caro Paul, ieri, sabato, ho ricevuto i cinquanta franchi che hai voluto mandarmi e che mi saranno molto utili, te l’assicuro. (…) Aspetto la visita che mi prometti per l’estate prossima ma non ci spero, Parigi è lontana e dio solo sa cosa accadrà da qui ad allora (…).
In verità qui vorrebbero costringermi a fare della scultura, e poiché non ci riescono m’impongono ogni sorta di fastidi. Il che non mi farà decidere, al contrario.
In questo periodo di feste penso sempre alla nostra cara mamma. Non l’ho più rivista dal giorno in cui avete preso la funesta decisione di mandarmi in manicomio! Penso a quel bel ritratto che le avevo fatto all’ombra del nostro bel giardino. I grandi occhi in cui si leggeva un dolore segreto, lo spirito di rassegnazione che regnava su tutta la sua figura, le mani incrociate sulle ginocchia in completa abnegazione: tutto indicava la modestia, il sentimento del dovere spinto all’eccesso… Non ho mai più rivisto il ritratto (come nemmeno lei, del resto!).
(…) Tanti auguri a te e a tutta la tua famiglia.

Tua sorella in esilio.

Destinatario: Paul Claudel, fratello minore di Camille; ex ambasciatore di Francia in vari paesi del mondo, ha terminato la sua carriera nel 1935 e risiede ora a Parigi. Qui conduce una fervida attività di pubblicista ed è autore di opere teatrali.

 

24 maggio 1935, lettera di Camille Claudel, un tempo scultrice, internata al manicomio di Montdevergues (Montfavet) dal 1914.

(…) un romanzo (…) perfino un’epopea, l’Iliade e l’Odissea. Ci vorrebbe proprio Omero per raccontarla, io non lo farei oggi, e non voglio rattristarla. Sono caduta nell’abisso. Vivo in un mondo così strano, così estraneo. Del sogno che fu la mia vita, questo è l’incubo.

Destinatario: Eugène Blot, suo antico fonditore, poi mercante, gallerista, collezionista e amico; nel 1933 ha appena pubblicato il catalogo delle opere presenti nella sua galleria, in vista di una vendita che si terrà il 2 giugno presso l’Hotel Drouot di Parigi. Tra gli autori esposti, Cézanne, Corot, Daumier,Van Gogh, Matisse e – appunto – Camille Claudel. Di lei, questa l’opera scelta, numero di catalogo 111:

Les bavardes di Camille Claudel, foto del catalogo della vendita all'hotel Drouot

Les bavardesLes causeuses, gruppo di quattro donne nude sedute su panche. Bronzo. Firmato sul panchetto, a sinistra. Esemplare patinato. Tiratura limitata a 6 esemplari. Modello bosso e verde. A cura di E. Blot (dal catalogo della vendita all’hotel Drouot).

 

1932-33, data non precisata. Lettera di Camille Claudel, cui i medici hanno da poco confermato – senza convincimento – un delirio sistematico di persecuzione.

Mio caro Paul, devo nascondermi per scriverti e non so come farò a imbucare questa lettera. Perché, renditi conto, Paul, che tua sorella è in prigione. In prigione e con delle pazze che urlano incessantemente, fanno smorfie, sono incapaci di articolare parole sensate. Ecco il trattamento che da quasi vent’anni s’infligge a un’innocente. Quando la mamma era viva non ho mai smesso di implorarla di togliermi di qui, di mettermi in un altro posto qualsiasi, in un ospedale, in un convento, ma non in mezzo ai pazzi. (…) Contavo su di te, ma costato con tristezza che continui a farti manovrare da Berthelot e dalla sua cricca. Avevano un’unica urgenza quelli lì: che io lasciassi Parigi per gettarsi sulla mia opera, per farsi delle rendite a poco prezzo. E Rodin dietro di loro, con la sua puttana. Tu, povero ingenuo, sei stato messo nel gioco senza accorgertene. Tu, Louise, la mamma, papà. Tutti. E io sono stata trattata come un’appestata. Mi spiavano, mandavano gente a rubare le mie opere; hanno cercato di avvelenarmi. Tu mi dici, dio ha pietà degli afflitti, dio è buono, ecc. Parliamone del tuo dio, che lascia marcire un’innocente in fondo a un manicomio.

Destinatario: Paul Claudel, fratello minore di Camille. In questo periodo svolge la sua attività diplomatica come console francese negli Stati Uniti d’America. Si occupa in particolare del problema dei debiti che il suo paese d’origine ha contratto con la potenza oltreoceano. Tra agosto e settembre del 1932 torna in Francia ed è a Parigi e a Brangues, dove possiede un castello eletto a residenza estiva per sé e la sua famiglia. A ottobre dello stesso anno torna negli U.S.A per l’elezione del Presidente Roosvelt. A aprile del 1933, però, è nuovamente a Parigi; eletto console in Belgio, da maggio a luglio viaggerà tra la sua nuova destinazione e l’Olanda, poi ancora a Brangues, per tornare in Belgio a settembre. Il suo poema Pan et Syrinx viene messo in musica da Darius Milhaud, celebre compositore di origine ebraica (maestro di Burt Bacharach, fra gli altri!).

 

3 marzo 1930. Lettera di Camille Claudel. Vuole scrivere lettere ogni 3 marzo, data nella quale crede ricada l’anniversario del proprio internamento; lo confonde, invece, con il giorno in cui era venuta a conoscenza della morte di suo padre, il 3 marzo 1913: è l’evento che lascia agli altri familiari carta bianca sulla sua vita e prelude alla sua reclusione.

(…) sono 17 anni che Rodin e i mercanti di oggetti d’arte mi hanno spedita a far penitenza nei manicomi. Dopo essersi impossessati dell’opera di tutta la mia vita…
Il mio povero atelier, qualche povero mobile, qualche utensile che mi ero forgiata io stessa, la mia povera piccola casa eccitavano ancora la loro cupidigia! – L’immaginazione, il sentimento, il nuovo, l’imprevisto che nasce da uno spirito evoluto, tutto questo era loro precluso, a quelle teste murate, a quei cervelli ottusi, eternamente chiusi alla luce, per cui avevano bisogno che qualcuno gliela donasse. E lo ammettevano: “Ci serviamo di una pazza per trovare i nostri soggetti”.
C’è forse qualcuno che nutre almeno un po’ di riconoscenza per chi lo ha nutrito, che sa dare qualche risarcimento a colei che hanno depredata del suo genio? No! Un manicomio!
È lo sfruttamento della donna, l’annientamento dell’artista a cui si vuol fare sudare sangue… .

Destinatario: Paul Claudel. In questo periodo viaggia tra la Francia e gli Stati Uniti, trascorre l’estate a Brangues e ha il tempo di tradurre in francese To a Bunch of Grapes, del poeta romantico inglese Thomas Lovell Beddoes.

 

2 febbraio 1927. Lettera di Camille Claudel. Il dottor Charpenel, medico dell’Asilo, vorrebbe che tornasse a casa; già due anni prima aveva scritto alla famiglia affinché prendesse in considerazione di ri-accoglierla. Il suo appello rimane inascoltato, come quello già espresso precedentemente (1920) dal dottor Brunet.

Cara mamma, ho tardato molto a scriverti perché faceva talmente freddo che non riuscivo a reggermi in piedi. Non ho potuto scaldarmi in tutto l’inverno, sono gelata fino alle ossa, spezzata in due dal freddo. (…) Sei ben crudele a rifiutarmi un asilo a Villeneuve. Non farei scandali come tu credi. Sarei troppo felice di riprendere la vita normale per fare qualunque cosa. (…) I manicomi sono fatti apposta per far soffrire, non c’è rimedio, specialmente quando non si vede mai nessuno. È il caso di dire che dovete essere pazzi. Quanto a me, sono così disperata di continuare a vivere qui che non sono più una creatura umana. (…) Non ho fatto quel che ho fatto per finire la mia vita come un numero in una casa di cura, ho meritato qualcosa di diverso.

Destinatario: M.me Louise-Athanaïse Cervaux, moglie di Louis-Prosper Claudel, madre di Camille. Dopo aver trascorso lunghi anni a Parigi per assecondare le aspirazioni di suo marito, che desiderava per la prole una formazione solida e foriera di grandi carriere, nel 1900 circa ha deciso di tornare a Villeneuve, il paese d’origine. Dal giorno dell’internamento di Camille, ha fatto in modo che nessuno interagisse con la figlia, costruendo attorno a lei l’isolamento perfetto e perpetuo. Nel 1920 non ha neppure smentito la falsa notizia della sua morte, che manda in confusione ulteriore gli amici dell’artista, già allarmati dalla sua prolungata scomparsa. Louise-Athanaïse finirà i suoi giorni nel 1929, assistita dalla secondogenita Louise, che con lei condivide tetto e intenti.

 

25 ottobre 1913. Lettera di Camille Claudel, scultrice, internata da sette mesi nell’ospedale Ville-Évrard, poco distante da Parigi. A tratti ancora sorpresa, a tratti abbattuta, cerca di comunicare con il personale del sanatorio per capire cosa le stia succedendo. Teme che le sue sculture vadano perdute.

(…) tutte queste opere derivano da un’arte assolutamente nuova che io ho scoperto, un’arte che non si era mai vista sulla terra e che ha un valore inestimabile.

Destinatario: il dottor Truelle, primario del reparto di psichiatria, autore della diagnosi di demenza paranoide, che graverà come un macigno per tutto il corso della vita di Camille da quel momento in avanti. Sulla cartella clinica tra parentesi vengono aggiunti tre punti interrogativi e un appunto: da verificare. Al momento, l’unico contatto di Camille con l’esterno sarà un pacchetto di dolciumi che Rodin riesce a farle arrivare in forma anonima.

 

Ecco l’incubo cui si riferisce Camille Claudel, la più grande scultrice del XIX secolo: un internamento in un ospedale psichiatrico durato trent’anni, dal 1913 al 1943, dai suoi 49 anni fino alla morte, sopravvenuta per fame e stenti a 79 anni, perché la guerra aveva sottratto risorse agli “inutili”, primi fra tutti i malati psichiatrici.
Potremmo inserire il suo nelle centinaia di nomi di donne internate per motivi vari in istituzioni in cui, si sa, curare equivaleva sostanzialmente a disciplinare.
L’idea che quella mentale fosse realmente una malattia – dunque derivante da un fattore patogeno rispetto al quale era necessaria la ricerca di una cura – si faceva strada con estrema difficoltà: la cultura generale e quella più specificamente medica si dividevano tra nuove convinzioni organiciste, legate alla teoria filogenetica di derivazione darwinista, e vecchi concetti di rieducazione sociale; quest’ultima spesso si abbatteva sui soggetti più deboli e non di rado tendeva a disciplinare il talento, l’esuberanza, la voglia di libertà, la rottura degli schemi sociali.
“Internamenti volontari”, erano chiamati; in realtà erano le famiglie, riparate dietro le più svariate giustificazioni, alcune legittime, altre tremendamente pretestuose, a richiedere la segregazione coatta del proprio congiunto, quando questi manifestava le intemperanze degli squilibri mentali e comportamentali.
I mezzi per intervenire erano bromuro, idroterapia (ossia docce e bagni gelati), vari attrezzi di contenzione. Dal 1917 venne introdotta la malariaterapia; dal 1935 la terapia convulsiva; dal 1937 lo shock insulinico o – un anno dopo – elettrico.
Camille Claudel credo si sia risparmiata solo i neurolettici.
Certamente, oggi la nostra sensibilità e le nostre conoscenze farebbero scaturire la più alta riprovazione verso pratiche di quel tipo, ma all’epoca i medici che le applicavano erano considerati coscienziosi e all’avanguardia.
A maggior ragione, sempre a considerare i tempi nostri, imperfetti ma indiscutibilmente progrediti, sorge il dubbio che l’artista così brutalmente introdotta su queste pagine, Camille Claudel appunto, sia stata vittima di una violenza sociale di genere, giacché donna dalla vita libertaria e sopra le righe in un’epoca che non lo consentiva, pena il pagamento di un prezzo altissimo. Siete avvertiti, così facendo correte un duplice rischio: che la complessità e la drammaticità della biografia prevalga sulla comprensione del valore artistico di questa figura straordinaria dell’arte a cavallo fra XIX e XX secolo; insieme, che una lettura univoca ne alteri persino la vicenda individuale.
Allora diciamolo subito: di là dall’inutile prolungamento del periodo del suo internamento, che le inflisse una sofferenza e le fece subire un annullamento senza pari, Camille Claudel malata lo fu davvero.
In manicomio non scolpì mai, ma la sua crisi e il suo allontanamento dall’arte ebbero inizio ben prima di quel fatidico 1913.
Restituita al grande pubblico solo dagli anni ’80, i documenti che la riguardano sono in gran parte perduti e quelli che sono pervenuti fino a noi sono ancora oggetto di studio e di interpretazione.
Come nel caso di Artemisia Gentileschi, molti di essi hanno risentito di una lettura prettamente di genere, ma è stata questa che li ha condotti fuori dall’oblio.

Dunque ci chiediamo: come riconoscere la qualità delle opere di Camille Claudel? Cosa è necessario prendere in considerazione per avvicinarci a lei?

Innanzi tutto, la reale situazione delle donne artiste nella Francia del XIX secolo.
In secondo luogo, la mentalità predominante nel mondo dell’arte, a quel tempo diviso fra Simbolismo, Irrazionalismo e spiritualismo (non di rado sfociante nel conservatorismo religioso), Positivismo.
Poi, la condizione di partenza – familiare – di Camille, che offre non pochi spunti di discussione.
Infine, il suo rapporto con Rodin – ampiamente approfondito dalla critica – ma anche quello con il fratello Paul, meno indagato, con il quale Camille ebbe un rapporto singolare, molto stretto, pieno di complicità ma anche di conflitti dalle conseguenze nefaste.

Casa natale di Camille e Paul Claudel a Villeneuve-sur-Fère

Villeneuve-sur-Fère, casa natale di Camille e Paul Claudel

Gli esordi vedono Camille cittadina della provincia a nord di Parigi, fra l’Île de France e il Nord Pas de Calais. Per via dei trasferimenti del padre, funzionario della municipalità nella valle dell’Aisne, la sua famiglia risiedeva di volta in volta in varie località. Alcune di queste, avevano rivestito per la giovanissima Camille un significato particolare: per esempio, la casa che la famiglia ebbe a Villeneuve e la cosiddetta Hottée du Diable, un complesso di rocce calcaree modellate dal vento, che si sollevano dal suolo della foresta di Coincy. Qui i giovanissimi Claudel (Camille, figlia maggiore, sua sorella Louise e il più piccolo Paul), andavano spesso in esplorazione, suggestionati dalla magia del luogo. I ricordi lasciati su qualche diario parlano di quelle giornate, sottolineando la presenza di una Camille dispotica, incline alla presa in giro nei confronti dei fratellini, già molto autonoma.

Fotografia di Louise Prosper Claudel con i figli tra cui la figlia Camille Claudel

Louise-Prosper Claudel con i figli. Camille, a sinistra, regge tra le braccia una bambolina

E forse possiamo riconoscere questo suo carattere nella fotografia di famiglia scattata insieme al padre Louis-Prosper, che per questa figlia e per la sua voglia di vivere aveva una vera e propria predilezione, un entusiasmo direi. Al contrario della madre, che l’aveva sempre amata poco: perché era arrivata dopo un figlio maschio morto a quindici giorni, era femmina, stravagante e disubbidiente; niente che la rigorosissima e triste Athanaïse Cervaux potesse sostenere.
Nell’età feconda, Camille andava a scuola e leggeva molto. La biblioteca del padre era ricca di testi classici attraverso i quali la sua immaginazione viaggiava senza freni. Il tempo libero lo trascorreva spesso anche nella fabbrica di argilla del nonno e qui aveva cominciato a modellare: prima figurine, pupazzetti, poi figure più complesse e infine ritratti; così impressionanti che il padre aveva deciso di farle praticare la scultura presso un maestro.

Fotografia di Alfred Boucher nel suo atelier parigino

Alfred Boucher – primo a sinistra – nel suo atelier parigino, 1889-1900 ca.

Eccolo qua, Alfred Boucher, pur essendo uno dei più apprezzati artisti francesi all’interno dell’Accademia, era sufficientemente aperto e visionario per cogliere in quelle piccole mani un talento straordinario, tanto da consigliare al padre di far proseguire gli studi di Camille a Parigi. I motivi erano molti: a Parigi Boucher disponeva di atelier e di modelli; Parigi era senza dubbio la capitale artistica del momento e l’abbondanza di artisti faceva sì che anche le abitudini sociali – senza esagerare – si fossero adattate a questa presenza, che vedeva peraltro un numero sempre maggiore di donne accostarsi al mondo dell’arte, con il preciso intento di intraprendere una carriera e rispondere a una domanda di mercato. Quello che Boucher intravedeva per Camille era un futuro da professionista, in un ambito non facile ma possibile e, volendo, anche remunerativo.
Insomma, mentre per Paul si preparava una carriera di studi, più tradizionale e acconcia a un maschio, la primogenita – destinata all’insuccesso nel mondo dell’istruzione, perché quello sì, era veramente ancora precluso alle donne – avrebbe potuto aspirare a una professione da artista. Sia Louis-Prosper che Camille erano entusiasti all’idea, benché il primo fosse consapevole della fatica che avrebbe comportato la rottura del nucleo familiare; gli altri, invece, accettavano l’idea con riluttanza e avrebbero caricato Camille della responsabilità di averli trapiantati in una realtà ben più complessa e difficile della soporosa provincia.

per saperne di più...

[clicca sulle immagini per ingrandirle]

 

Quale realtà per le donne artiste?

Nella seconda metà dell’Ottocento, il mondo dell’arte accoglieva le giovani di talento in scuole private (l’Accademia di Belle Arti resta loro preclusa fino al 1897), e sebbene l’avvio verso una professionalità vera e propria fosse ancora lontano, alla domanda di beni artistici da parte della borghesia urbana rispondeva circa un migliaio di pittrici nella sola Parigi. Di fatto, esse rappresentavano una concorrenza ai colleghi uomini, presto arginata: nel 1880 le donne presenti al Salon erano 1081; l’anno successivo, quando il Salon fu direttamente gestito dagli artisti, tale numero scese a 658, segno che anche la mentalità modernista degli intellettuali, flâneurs o engagés che fossero, doveva fare i conti con le dinamiche di produzione e competizione, nelle quali le donne potevano a fatica districarsi. Tutto accadeva lontano dai contemporanei movimenti femministi, più politicizzati. Le donne artiste non esercitavano rivendicazioni sociali presso i loro colleghi, cautamente si rivolgevano alle istituzioni, e la richiesta del riconoscimento identitario di là da ogni stereotipo non sempre sfuggiva a qualche nuance romantica.
Sottrarsi a questo meccanismo comportava una grande fatica; non sempre queste donne erano immuni dalla sostanziale identificazione con il loro ruolo storico, con il quale tendevano a trovare sempre un compromesso, al contrario della “nostra”.

Fotografia dell'Accademia Colarossi dove si riconoscono le pittrici Ida Gerhardi e Jelka Rosen, contemporanee di Camille Claudel

Accademia Colarossi, classi di pittura. Nella fotografia si riconoscono le pittrici Ida Gerhardi e Jelka Rosen, contemporanee di Camille Claudel

Fotografia di Camille Claudel nella casa a Montparnasse

Camille (al centro) sul balcone della casa a Montparnasse, al n. 111 di rue Notre-Dame-des-Champ

Trasferitasi con la famiglia a Montparnasse, Camille riesce a entrare nell’Accademia Colarossi: fondata da Filippo Colarossi, originario di Frosinone, era l’alternativa alla scuola ufficiale perché accettava studentesse e dava loro l’opportunità di dipingere dal vero modelli nudi. Ma già dal 1882 Camille era in grado di allestire un atelier insieme a alcune amiche inglesi, Jessie Lipscomb e Amy Singer, scultrici anch’esse, sotto la supervisione di Boucher.

Passato un anno, per il maestro arrivò una buona notizia: aveva vinto l’ambitissimo Prix de Rome, che l’avrebbe portato per qualche tempo a Roma, all’Accademia di Francia. Perciò, qualcuno avrebbe dovuto sostituirlo e Boucher pensò a un amico scultore, giovane promessa dell’arte francese, che gli doveva più di un favore. Lui era Auguste Rodin.

Tra il 1883 e il 1886 Camille espose le sue prime opere e conseguì un discreto successo. Il suo apprendistato con Rodin avveniva in una maniera, che coinvolgeva tutto il suo corpo e la sua mente. L’incontro col nuovo maestro, infatti, non era solo professionale: era quello tra due anime che si ritrovavano l’una nell’altra e prendevano l’una dall’altra ispirazione, vitalità, passione, fantasia. Li accomunava il gusto e persino lo stile, in quel fare costante riferimento alla natura, oggi diremmo al vero. Il connubio sul lavoro era altrettanto forte e li travolgeva tanto quanto la passione clandestina che, nata immediatamente tra i due, benché Rodin avesse ventiquattro anni più di Camille, sarebbe andata oltre i limiti della morale e del buon costume del tempo, della sanità persino.
Camille aveva una passione viscerale per la scultura. Imparava con gli occhi e soprattutto con la pelle, verrebbe da dire, quando – giovane com’era, appena arrivata dalla provincia e certo non particolarmente smaliziata – accettò di fondere il suo lavoro con quello di quest’uomo. Gli fece anche da modella, sottomettendosi con remissività consapevole a ogni richiesta e scoprendo così fino in fondo anche se stessa, la sua femminilità e il suo talento.

per saperne di più...

[clicca sulle immagini per ingrandirle]

Fotografia di Auguste Rodin in uno dei suoi studi

Rodin in uno dei suoi studi, forse il Deposito dei marmi; la donna accanto a lui somiglia a Jessie Lipscomb, il che fa sperare che la figura rimasta in ombra sia Camille Claudel. 1884 ca.

In capo a un anno, Rodin chiese a lei e alle altre ragazze di trasferirsi al Deposito dei Marmi, il grande magazzino di proprietà dello Stato dove si conservavano le pietre da lavorare per i monumenti pubblici, un’ala del quale gli era stata affidata per allestirvi uno studio, che vi aveva potuto allestire il suo studio (a riprova di una fama crescente). Le ragazze avevano accettato e lo spettacolo cui assistettero al loro ingresso era formidabile: un pullulare di statue, di lavoranti, di modelli e modelle che lavoravano come formiche, drappi che scendevano dal soffitto, impalcature per le commissioni di grandi dimensioni, gessi di ogni tipo e un’immensa opera in fieri, una porta decorativa che avrebbe dovuto essere fusa in bronzo: era il cantiere della Porta dell’Inferno, la grandiosa commissione che Rodin aveva ricevuto dal Musée des Arts Décoratifs.
Le nuove arrivate occuparono il loro posto senza sconti, privilegi o riguardi particolari. Gli era concesso di lavorare per sé nei ritagli di tempo, vietato perdersi in domande. S’imparava guardando e praticando. In quel luogo, venuta meno ogni pudicizia, tutto l’operare artistico ruotava attorno alla più stretta e intima osservazione anatomica di maschi e femmine.

Fotografia delle mani modellate da Camille Claudel per i Borghesi di Calais di A. Rodin

Camille Claudel, mani modellate per i Borghesi di Calais di A. Rodin, 1884; Parigi, Museo Rodin (foto di A.M.Panzera)

Nel giro di poco tempo, Camille riuscì a conquistare un ruolo di straordinaria rilevanza all’interno del cantiere e per motivi strettamente professionali. Rodin le riconosceva un talento eccezionale e le affidava la lavorazione di molti dettagli; mani e piedi delle statue erano modellati esclusivamente da lei e presto il suo contributo arrivò a salvare Rodin nei momenti in cui l’ispirazione s’impantanava, come nel caso del gruppo dei Borghesi di Calais. D’altra parte, per mano del maestro, tutto il deposito e le esposizioni cominciavano a riempirsi dei ritratti della giovane champenois, il cui volto – che colpiva tutti per la fissità dello sguardo – per Rodin stava diventando una vera e propria ossessione (1884-1885).

Ben presto i ritratti non furono solo scultorei ma letterari, a riprova della fama crescente della giovane artista. Ecco la descrizione di Camille in quegli anni di apprendistato, resa da Mathias Morhardt, il critico d’arte editore di Le Temps e poi giornalista del Mercure de France: «resta seduta sulla sua seggiolina in silenzio, con aria diligente. Le interminabili chiacchiere degli oziosi la sfiorano appena. Concentrata esclusivamente sul suo compito, impasta l’argilla e modella il piede o la mano di una statuetta che ha davanti. Ogni tanto solleva la testa, guarda il visitatore con i suoi grandi occhi chiari, accesi di curiosità e, oserei dire, di ostinazione. Poi riprende subito il lavoro che ha interrotto».

per saperne di più...

[clicca sulle immagini per ingrandirle]

Di là dalla seduzione esercitata dal magistero di Rodin e da lui stesso, a Camille interessava sopra ogni cosa fare la sua scultura.
Per comprendere a fondo questa personalità complessa, è bene soffermarsi su come lei ragionasse in termini che a quel tempo potevano essere solo maschili. La libertà sessuale, morale, estetica, che stava conoscendo, sarebbe presto divenuta per lei un dato acquisito, particella imprescindibile di un’identità totale, personale e artistica, che la induceva senza irresolutezze ad aspirare alle grandi commissioni, a lavorare e perciò a vivere del proprio lavoro – possibilmente in comunione con Rodin ma non esclusivamente con lui, come vedremo.
È per questo che anche nel periodo degli esordi Camille scolpiva con impegno da professionista, cercando e affermando la propria cifra stilistica.
Nella memoria di Morhardt, che di Camille diverrà il primo biografo, la prima opera fu il Torse de Femme accroupie, che qui vediamo nella fusione in bronzo eseguita probabilmente nel 1913 da Frédéric Carvillani dietro istruzioni di Philippe Berthelot, nominato tutore dei beni dell’artista dopo il suo internamento; quindi, l’Homme penché e la Femme accroupie; ancora, il bellissimo Giganti, ritratto di modello italiano, come tanti ce n’erano allora a Parigi; infine la Jeune fille à la gerbe.

per saperne di più...
[clicca sulle immagini per ingrandirle]

Non c’è dubbio che ci sia molto di Rodin in queste sculture giovanili, com’è altrettanto vero che già sono riconoscibili elementi esclusivamente riconducibili a Camille Claudel: la ricerca anatomica, per esempio, a meno che non si tratti di volti, non è l’elemento preponderante, mentre è più importante la ricerca del movimento, che nel Rodin delle grandi opere, al contrario, è spesso assente. La lavorazione – dalla terracotta, al marmo, all’eventuale fusione in bronzo – non è mai delegata ad altra mano: Camille si occupava di modellare e controllare la materia sempre in prima persona, giungendo ad elaborare uno stile di finitura e lucidatura (soprattutto per il marmo e per il bronzo) che non aveva nulla da invidiare ai maestri del classicismo rinascimentale, anche perché proprio da loro recuperava tecniche antiche e in disuso, come la lucidatura con osso di montone. Se forme e ispirazione potevano essere dedotte dall’antico, il tocco restava personale fino ad opera terminata.

In quegli stessi anni, però, Camille aveva progettato e stava producendo il suo lavoro più grande. Un gruppo colossale che racchiudeva e sigillava sia il periodo dell’apprendistato, che il primo affrancamento da quel suo perenne ruolo di allieva cui la relegavano alcuni critici e soprattutto il pubblico; era il primo allontanamento da Rodin, suggellato da un viaggio in Inghilterra, che suonava come una dichiarazione d’indipendenza. Siamo tra la primavera e l’estate del 1886. L’opera in questione è Sakuntala.

per saperne di più...

Fotografia di Camille Claudel che lavora al modello di Sakountala

Camille Claudel lavora al modello di Sakuntala, 1886-87

Fotografia di Sakountala, di Camille Claudel

Camille Claudel, Sakuntala, 1886-1905; Musée Rodin, Paris.

La leggenda di Sakuntala

La leggenda indiana di Sakuntala ispirò anche la Turandot di Puccini.
Ecco la trama: durante una battuta di caccia nei pressi di un eremo, un re incontrò una bellissima fanciulla, che ne era custode, e se ne innamorò.
I due vissero una passione intensa, nonostante la sacralità della sacerdotessa, interrotta dai doveri di corte che esigevano che il sovrano tornasse a palazzo. Egli le donò perciò un anello, chiedendole di aspettarlo fino al suo ritorno.
Sakuntala attese; il tempo passava e lei rimaneva talmente assorta nei suoi pensieri da dimenticare un giorno di aprire le porte del tempio al vecchio eremita Durvàsas.
Questi, irato, la maledisse: ella sarebbe stata dimenticata da chiunque l’avesse amata. Spaventate della sorte di Sakuntala, due sue amiche implorarono il vecchio eremita, il quale addolcì la sua maledizione: chi l’avesse amata si sarebbe ricordato di lei solo dopo aver visto l’anello che la ragazza aveva ricevuto in dono.
Ben presto, però, Sakuntala scoprì di attendere un bambino e volle recarsi alla reggia del suo amato; sfortuna volle che durante il viaggio perdesse l’anello: le speranze di essere riconosciuta erano svanite e lei si ritirò addolorata.
Anni dopo un pescatore, ritrovato l’anello nella bocca di un pesce, lo portò al re: l’incantesimo venne così spezzato e il sovrano si mise alla ricerca dell’antico amore. Appena s’incontrarono i due si abbracciarono, Sakountala quasi svenne tra le braccia del re, vinta dall’emozione. Per il bambino si sarebbe preparato un avvenire eroico. 

A settembre, rientrata dal viaggio che l’aveva condotta fino all’Isola di Wight (che meraviglia ritrovare le antiche colleghe e farsi una nuova amica, Florence Jeans!), Camille si buttava a capofitto nel proprio lavoro, lasciando Rodin in uno stato di prostrazione. Eccone le testimonianze dirette in alcune lettere, da cui stralciamo i brani più significativi.

Auguste Rodin a Camille Claudel, senza data, 1886:

Mia feroce amica,
la mia povera testa è ben malata, e non riesco più ad alzarmi la mattina: Questa sera ho camminato per ore senza trovarti nei nostri luoghi. Come mi sarebbe dolce la morte! E com’è lunga la mia agonia. Perché non mi hai atteso all’atelier? Dove vai? A quale dolore ero predestinato (…)
Camille, mia bene amata nonostante tutto, nonostante la follia che sento venire e che sarà opera tua, se tutto questo continua. Perché non mi credi? Abbandono il Salon, la scultura… ci sono momenti in cui credo che ti dimenticherò. Ma poi, in un solo istante, sento la tua terribile potenza. Abbi pietà, crudele. Non posso più passare un giorno senza vederti. Se no, l’atroce follia. È finita, non lavoro più, divinità malefica, e tuttavia ti amo furiosamente.
Mia Camille, non ho nessuna donna come amica, credimi, e tutta la mia anima ti appartiene. (…)Il rispetto che ho per il tuo carattere, per te, è una causa della mia violenta passione (…) Non minacciarmi e lasciati vedere (…) devo a te tutta la parte di cielo che ho avuto nella mia vita.
Le tue care mani lasciale sul mio volto, che la mia carne sia felice, che il mio cuore senta ancora il tuo amore divino (…) La tua mano Camille, non quella che si ritrae, non c’è gioia a toccarla se non è il pegno di un po’ della tua tenerezza. Ah divina bellezza, fiore che parla, e che ama, fiore intelligente, mia diletta. Mia carissima, in ginocchio, davanti al tuo bel corpo che stringo fra le braccia.

 

C’è da pensare che Sakuntala (che nelle versioni successive prenderà nomi diversi come L’Abbandono o Vertumno e Pomona) prendesse forma a mano a mano che la storia fra Camille e Rodin procedeva, forse dopo qualche tradimento di quell’uomo, noto amante impenitente e convivente da anni con una donna da cui aveva avuto un figlio mai riconosciuto; anche però capace di comportamenti appassionati e infantili, imperdibile nutrimento romantico per lo spirito accentratore e vanitoso della ragazza. Certo è che fra ottobre e novembre 1886, mentre Rodin continuava a scrivere lettere/contratto in cui prometteva a Camille che l’avrebbe tenuta come unica allieva, affinchè non potessero prodursi talenti rivali, fino all’epilogo in un matrimonio, questa lavorava al suo gruppo, affrontandone in prima persona le spese.
Rodin non avrebbe mantenuto le sue promesse ma Camille sì: nel 1888 il suo gesso era compiuto ed esposto al Salon des artistes française, ricevendone una menzione e molte buone critiche.
Contemporaneamente, però, avendo la sua famiglia scoperto la tresca con lo scultore più anziano e invischiato in una situazione ambigua, Camille era costretta a lasciarne la casa e a prendere un appartamento in affitto a Boulevard d’Italie.
La reazione più forte era stata quella di Paul. Già dal momento in cui la relazione fra sua sorella e Rodin si era fatta più stretta, egli aveva vissuto tutto questo come un tradimento. Il sentimento trapelava dalle sue opere letterarie, i cui personaggi femminili erano pressoché tutti improntati alla figura e al carattere di Camille, o meglio, al vissuto di Paul nei confronti di questa sorella, che sembrava avere una marcia in più, una spregiudicatezza quanto mai adatta alla congerie culturale parigina di quegli anni. Mescolata al moralismo intriso di ambivalenza da cui Paul sembrava caratterizzato, la miscela diventava esplosiva: la promessa di una crisi, anzi di una catastrofe, da cui il giovane letterato sentiva di doversi salvare.
La notte di Natale del 1886 Paul si convertì al cattolicesimo e assunse nei confronti di Camille una posizione singolare: ne diventò il censore più rigido, benché continuasse a esaltarne l’opera artistica; contemporaneamente (e a maggior ragione dal momento in cui Camille avrebbe cominciato a manifestare palesemente il suo disturbo psichico), egli addossava a Rodin tutta la responsabilità del progressivo e generale deterioramento della sorella. Si preparava allora la ragione più profonda del futuro, inappellabile internamento. Complici i tempi e forse la mai disciolta, profondissima alleanza fra Paul e Camille.

 

Weltanschauung: l’aria dei tempi

Questa parte di XIX secolo era permeata di Positivismo. Tuttavia, l’approccio deterministico di autori come Comte, Spencer, Zola e tanti altri, trovava il suo contraltare nel tentativo di definire e rivalutare la dimensione umana “irrazionale”, operato da quegli scrittori, poeti, artisti, che non avevano fiducia nella possibilità della scienza di capire, esprimere o modificare la psiche, le sue immagini, le sue pulsioni. Questi stessi intellettuali, d’altro canto, non si erano del tutto affrancati dalla concezione dell’irrazionale come qualcosa di bestiale, che da un lato doveva essere difeso, dall’altro era inficiato di “vergogna e colpa”, tale che solo l’aspirazione a un’altissima idealità poteva salvare l’essere umano dall’abisso. Erano così, per esempio, la maggior parte dei Simbolisti: Baudelaire, primo fra tutti, poi Mallarmè, attorno a cui in quegli anni si riuniva un circolo di intellettuali che s’incontravano ogni martedì nel suo appartamento di Rue de Rome, per ascoltarlo e per ripetere il rito di quella che era al momento l’avanguardia della letteratura e della cultura in generale: la trasfigurazione, la corrispondenza misteriosa tra l’immagine e la parola che solo l’artista, il poeta poteva cogliere ma non sciogliere.
Camille e Paul partecipavano ai martedì di Mallarmè piuttosto regolarmente ma con insofferenza: li distingueva la loro allure nettamente provinciale, forse condita da invidia e consenso. Se Camille era talvolta soffocata da quell’atmosfera satura e ispirata, dove la donna era tutto sommato sempre relegata in un ambito simbolico, demone o angelo che fosse (mai autrice, artefice in prima persona), Paul ne era respinto e ugualmente attratto, perché per lui – ormai cattolico convinto – era come camminare su un crinale eccitante, tra perdizione e spiritualità. In prossimità di ogni cedimento, preferiva allora rifugiarsi in un cattolicesimo ortodosso che non usciva dai binomi sopra descritti, perché proiettava tutto in una prospettiva di espiazione e salvezza. La sua era una dottrina d’origine paolina, incentrata sul culto della “sofferenza vicaria”, che inneggiava a un “sacrificio al femminile”, descritto e incrementato da intellettuali (si pensi a Leon Bloy, Joris Karl Huysmans, Georges Bataille), i quali ne avevano esperienza attraverso la stretta contiguità con donne considerate le protagoniste assolute e spesso consapevoli di tali pratiche. Le opere di Paul Claudel, che nel frattempo si stava affermando come drammaturgo, erano piene di eroine femminili che rispecchiavano questo prototipo.
Chi oggi legga e conosca la biografia e l’opera di Paul, non tarderebbe ad accorgersi che dietro molti personaggi claudeliani c’è proprio Camille, punita; c’è il sentimento di dipendenza, frustrazione e abbandono che Paul nutriva nei suoi confronti; c’è l’ineluttabilità di un destino funesto da intendere come risarcimento ad un peccato originale. Quale?

Camille a quell’epoca rappresentava un prototipo di donna singolare: eccezionalmente conservatrice per molti aspetti (per esempio, profondamente anti-semita come dimostrerà nell’affaire Dreyfus; legata al più tradizionale degli abbigliamenti, mentre le donne cercavano di liberarsi da corsetti e busti per poter andare in bicicletta, inventata di recente), sotto altri profili era veramente in anticipo sui tempi, il primo risiede nella sua scultura. Scolpiva a partire da modelli nudi, maschi e femmine, libera dal comune senso del pudore; rivestiva le sue figure di sensualità oppure le creava a partire da un’inventiva impregnata di simbolismo da un lato e di un fortissimo espressionismo dall’altro. Non c’era donna che lavorasse come lei. Le sue colleghe insistevano nel produrre immagini che non andavano oltre un aplomb esclusivamente decorativo. Lei, invece, quando nel 1893 il tempo cominciava a premere sulle sue spalle, scolpiva il Torso di Clotho e l’ancor più impressionante Clotho. E perché no, visto che l’amorevole gesso precedente, per il quale era stata premiata e che era stato commissionato in marmo dalla municipalità di Chateauroux, mostrato alla cittadinanza, aveva ricevuto tale riprovazione, da essere relegato e abbandonato all’umidità e alle muffe nel magazzino del Museo locale?

per saperne di più...

Fotografia del Torso di Clotho

Torso di Clotho, 1893

Fotografia di Clotho, 1893 Museo Rodin

Clotho, 1893 Museo Rodin

Fotografia di Clotho, 1893 Museo Rodin

Clotho, 1893 Museo Rodin

 

La seconda particolarità di questa donna, forse la colpa più grande, forse il più grande atto di coraggio, fu la decisione di separarsi da Rodin: sia perché l’autonomia di una donna non era prevista dal codice civile, morale e culturale di quegli anni, sia perché Camille non potè resistere a lungo alla solitudine e all’attacco da parte della famiglia e della società. Questo fu violento e piombò rovinosamente sulla sua vita, allargando il baratro nel quale sarebbe caduta. La solitudine si trasformò in un isolamento selvaggio; l’antica corrispondenza di amorosi sensi con Rodin diventò progressivamente una vertigine di abnormità e delirio. Artisticamente, Camille non teneva conto di ciò che le accadeva intorno: non degli Impressionisti (che ormai erano diventati classici), né di Monet o di Gauguin, né di Van Gogh e tantomeno di Matisse o delle avanguardie che stavano prendendo spazio; aveva di Berthe Morisot un’opinione mortificante; sottovalutava le artiste che in quegli anni cominciavano a parlare di femminismo e a cercare spazi per un’affermazione a più livelli, convinta che la sua arte avrebbe dovuto essere abbastanza convincente, senza altre rivendicazioni.

Fotografia di Claude Debussy nel salotto del musicista Ernest Chausson

Claude Debussy nel salotto del musicista Ernest Chausson, 1893. Sullo sfondo, sopra il pianoforte, La Valse di Camille Claudel, regalatogli dall’autrice.

Un notevole errore di rapporto con la realtà, il primo colpo di scalpello alla costruzione di un personaggio tragicamente eroico.
La rottura definitiva con Rodin arrivò nel 1893. Lo scultore avrebbe continuato in segreto ad aiutare economicamente l’amica ancora per qualche anno.
Senza sosta, Camille proseguiva la sua ricerca nella scultura.
Nel 1889 insieme all’amico musicista Claude Debussy, con cui intercorreva un rapporto di stima profonda, entusiasmo e tenerezza, forse sfociato in una breve relazione, si era recata all’Esposizione Internazionale.
Qui entrambi approfondirono la conoscenza dell’arte giapponese.
Camille era una fan di Hokusai, da cui fu ispirata a ideare La Vague, capofila di una serie di sculture di piccole dimensioni tratte da scene di vita quotidiana, in cui metteva alla prova materiali duri e fragili allo stesso tempo, come l’onice.

Fotografia di La Valse, Camille Claudel

La Valse, Camille Claudel

Fotografia di La Vague, Camille Claudel

La Vague, Camille Claudel

Ma la vita, quella non funzionava. Paul, ormai affermato diplomatico, era partito ancora una volta per uno dei suoi lunghissimi viaggi. Visitatori e compratori disertavano l’atelier della scultrice e il peso di quella solitudine era tale che Camille veniva assalita dall’angoscia di perdere la parola. Lunghe passeggiate solitarie sui boulevard le offrivano spunti per nuove sculture ma contemporaneamente la sottoponevano al giudizio e all’offesa della gente. Cominciava a ossessionarla l’idea di differenziare la propria opera da quella di Rodin e contestualmente nutriva timori di spossessamento, paura che gli altri (Rodin, i formatori, tutti) le rubassero le idee. Le difficoltà economiche, inoltre, diventavano progressivamente insormontabili. I pochi soldi che la famiglia le mandava erano spesi per i materiali e i lavoranti – e neppure bastavano – mentre le sue condizioni di salute divenivano sempre più precarie.
Molti amici tentavano di darsi da fare per lei, Rodin compreso, ma le loro iniziative restavano gocce nel mare e Camille, mentre continuava ancora a provare grande piacere nel lavoro, diventava progressivamente la peggior nemica di se stessa; intemperante in ogni relazione, era la persona meno indicata per chiedere allo Stato – già scettico sull’opportunità – di prendere in carico la realizzazione delle sue sculture.
Eppure la commissione arrivò: complici Rodin, Octave Mirbeau – che su di lei aveva scritto un articolo, considerato il primo raggio di gloria per la scultrice – e il Ministero dell’Istruzione Pubblica. Rodin scriveva significativamente a Mirbeau: «Tutti sembrano convinti che la signorina Claudel sia ancora la mia protetta, e invece è solo un’artista incompresa, può vantarsi di aver contro i miei amici scultori…sono sicuro che alla fine avrà successo, ma certo, la povera artista sarà triste, ancora più triste a quel punto, conoscendo meglio la vita, essendo piena di rimorsi e rimpiangendo la sua fierezza d’artista e la sua onestà nel lavoro». In effetti, Camille avrebbe avuto presto prova sia dell’ottusità della potente burocrazia francese, sia di molti esponenti dell’entourage intellettuale gravitante intorno ai Salon. Ma perché per lei un eventuale successo avrebbe dovuto significare rimpianti e rimorso? Cosa voleva dire Rodin? Parlava forse di se stesso?
L’opera richiesta all’artista era L’Age mûr, un gruppo che raffigurava un uomo esitante tra la Vecchiaia e la Giovinezza, molto apprezzata per il modellato raffinato e l’espressività narrativa; tuttavia, quando tutto sembrava pronto per la fusione in bronzo, lo Stato ritirò la commessa, pur avendo già versato la somma pattuita: per Camille era il crollo di tutte le speranze.
Chi c’era dietro la decisione? Correvano voci che fosse proprio Rodin, che pure tanto si era adoperato affinché la sua antica amante giungesse a quel risultato, a chiedere che tutto fosse sospeso, probabilmente rivedendo nel gruppo scultoreo un brano della propria esistenza: una Camille implorante e in ginocchio, che non riusciva a trattenerlo mentre lui prendeva la strada più sicura e confortevole nell’abbraccio della vecchia, fedelissima Rose Beuret. Ma questa era solo una delle tante letture possibili.
Sorretto dall’impalcatura delle chiacchiere, il delirio di Camille prendeva forma: Rodin agiva sulla sua vita nonostante tutto. A maggior ragione non bisognava rinunciare all’Age mûr, ma dieci anni di controversie estenuanti non condussero ad alcun risultato. L’opera fu salvata da un cultore d’arte, il capitano Louis Tissier, che la fuse a sue spese resistendo a ogni avversità, mentre l’autrice ne fu progressivamente travolta.

Fotografia di L'Âge Mûr, di Camille Claudel

Camille Claudel, L’Âge Mûr, 1898-1913, Parigi, Museo d’Orsay

 

Per concludere, Camille era apprezzata? Era un’artista “maledetta”?

Una delle ultime fotografie di Camille con il Perseo nello studio di Quai Bourbon.

Una delle ultime fotografie di Camille con il Perseo nello studio di Quai Bourbon. Archivio della biblioteca Marguerite Durand.

Camille era apprezzata, benché non da tutti e non come lei avrebbe voluto. Era considerata – pur con meraviglia – una donna di genio. Gli articoli in sua lode a distanza di tempo appaiono moltissimi; forse non altrettanto nella percezione dell’artista e nella risonanza pubblica. Partecipò salvo rare eccezioni a tutti i Salon annuali a partire dal 1883. Ciò nonostante non riusciva a vivere della sua scultura e, non appoggiandosi alla sicurezza economica di un uomo, il mero sostentamento era per lei un’impresa. Socialmente, era uno scherzo di natura, come la definiva Octave Mirbeau tra ammirazione e sgomento. Tale situazione, fusa al suo carattere irritabile, instabile, la rendeva invisa ai più, e ciò poteva solo acuire tale instabilità.
Quando nel 1902 scolpì una delle sue ultime opere, il Perseo e la Gorgone, Camille non solo era una donna appesantita, non più giovane; era soprattutto, stanca, malata, sfiduciata; come non bastasse, a lei qualche anno dopo Paul avrebbe chiesto di rinunciare alla scultura, perché a suo parere quella era la malattia che la stava conducendo a non essere neppure presentabile e lui, funzionario d’alto livello, a sentirsi in difficoltà.
Gli effetti del delirio paranoico di Camille, intanto, prendevano risvolti sempre più inquietanti. Creava e distruggeva le sue opere, vendicandosi così per le offese della vita, punendo così i “nemici”, molti dei quali neppure lei riconosceva. Viene da pensare così, ascoltando l’intervista radiofonica realizzata da Jean Amruche nel 1950, durante la quale Paul affermava: «la ferita che offre lo spettacolo di quella personalità magnifica e del fallimento che ha rovinato la sua esistenza. La natura era stata prodiga con lei: mia sorella Camille aveva una bellezza straordinaria, un’energia, un’immaginativa, una volontà assolutamente eccezionali. E tutti questi doni splendidi non sono serviti a niente… È esattamente una vocazione un po’ diversa dalla mia: io sono arrivato a un risultato, lei non è arrivata a niente. Tutti quei doni meravigliosi sono serviti solo a fare la sua disgrazia»; all’interlocutore che insisteva nel dire che “niente” non era esattamente la parola adatta alla scultura di Camille, Paul aggiungeva: «La vocazione artistica è una vocazione eccessivamente pericolosa e alla quale pochissimi sono capaci di resistere. L’arte riguarda facoltà dello spirito particolarmente pericolose, l’immaginazione e la sensibilità…», come a dire che la passione artistica di Camille si era rivelata divorante e distruttiva, mentre lui aveva avuto successo a forza di controllo, razionalismo e ambizione.
Viene da chiedersi perché Camille non si sia mai scontrata con quel fratello le cui parole risuonano di una freddezza insopportabile. La difficile riflessione che si può fare a posteriori induce a pensare che, mentre la scultrice doveva possedere un universo di forme in movimento, la donna Camille Claudel aveva riposto il suo mondo interiore nelle immagini di tre uomini: suo padre, Rodin, Paul. Perduto Rodin, perduto anche suo padre nel 1913, Paul poteva sembrare (ed era, probabilmente) l’unico cui aggrapparsi, benché rimanesse impietrito di fronte alla sua condizione, sempre più degradata. Camille aveva bisogno di un intervento medico ma la diagnosi impietosa che le fecero le fu fatale, perfettamente in linea con l’atteggiamento di Paul, a sua volta identificato nella mentalità di un cattolico fondamentalista, per il quale la figura dell’artista – senza una guida, una fede – era solo un intreccio indissolubile e drammatico di libertà e destino; essa aveva senso solo facendosi protagonista di una parabola che catalizzava ogni evento della vita quotidiana, al fine di rendere quell’esistenza un caso esemplare. Chi meglio di Camille la incarnava? Mentre la esaltava, Paul costruiva attraverso la sorella il suo martire moderno, la follia e il dolore di Camille diventavano miracolo e sacrificio, e l’internamento ben lungi dalla prospettiva di una cura e di un recupero alla vita. Camille avrebbe dovuto essere privata di tutto, dell’esistenza stessa, dei suoi rapporti, dei suoi pochi averi. Per la famiglia Camille moriva, scompariva in quel maledetto 10 marzo 1913, quando la polizia andò a prelevarla a viva forza dal suo studio.
camille-claudel-anna-maria-panzeraCi risparmiamo il racconto del dopo, quanto abbiamo detto all’inizio rende abbastanza. Oggi che la sua scultura è stata riscoperta e rivalutata, in considerazione di quanto accadde all’arte nel fatidico passaggio dall’Ottocento al Novecento, possiamo discutere se Camille Claudel è stata la più antica fra gli scultori moderni o la più moderna tra gli antichi.
Certamente, soprattutto rispetto alla scultura femminile a lei coeva, ha saputo imprimere alle sue opere una vitalità non comune, imprimendo energia narrativa al chiaroscuro, rendendo l’ombra significante come una metafora della vita e non solo sfida pittorica, anticipando e affrontando molte delle questioni caratterizzanti le future lotte per l’autonomia identitaria della donna artista.

Mai una massa scultorea era stata trattata così da una donna prima d’allora. Grazie a Camille Claudel la strada per il futuro era aperta.

 

BIBLIOGRAFIA & SITOGRAFIA

Maria Antonietta Trasforini, Nel segno delle artiste: donne, professioni d’arte e modernità, Il Mulino, Bologna 2007.

Anna Maria Panzera, Camille Claudel, L’Asino d’oro Edizioni, Roma 2016.

A&A Art and Architecture, The Courtauld Institute of Art

Tableaux modernes, aquarelles, pastels, dessins … sculptures par Claudel, Desbois, Hœtger, Maillol et Rodin : collection Eugène Blot, Hotel Drouot, 1933.

Camille Claudel, Montdevergues asylum, 1014-1943

La correspondence de Camille Claudel, par Anne Rivière, Conference a la page, Exposition dans Le Musées d’Angers, mai-juin 2015

Crediti fotografici per Clotho: www.musee-rodin.fr

Altri crediti fotografici: Wikimedia

 

 

A proposito dell'autore

Storica dell'Arte e Scrittrice
Google+

La linea, l'immagine, il colore sono elementi del linguaggio che l'artista usa per comunicare con noi un pensiero invisibile. Interpretarne i segni è la mia ricerca, insieme a quella di scoprire chi erano o sono i creatori, quale il loro mondo, quali strade l'arte intreccia con le nostre. Ho scritto, tra gli altri, due libri per l'editore L'Asino d'Oro; il primo dal titolo "Caravaggio, Giordano Bruno e l'invisibile natura delle cose" e il secondo, appena uscito, dal titolo "Camille Claudel".

Post correlati

5 Risposte

  1. Paola Cinti

    Più leggo di lei e più cresce la sensazione che conoscere la sua storia e comprenderla sia una di quelle porte che, nel decidere se aprirle o meno, cambiano la prospettiva che abbiamo della storia umana.
    La sua storia è la rappresentazione di quel momento, vissuto più volte, che ogni donna si trova di fronte nel corso della propria vita: ovvero scardinare l’idea che il mondo ha di noi provando ad andare oltre, oppure condividerla fino a diventarne parte.
    Lei ha pagato un prezzo altissimo e ci ha fatto due splendidi regali: il primo riguarda le sue opere, che sono la rappresentazione di un mondo artistico e femminile unico, il secondo riguarda la sua storia e quella di chi gli stava intorno, che ci permette di comprendere un po’ meglio come e perché la libertà femminile sia vissuta come un movimento di ribellione che mette a dura prova la famiglia, la società e noi stesse.

    • Anna Maria Panzera

      Hai perfettamente ragione Paola. Inoltre, più si studia questa donna, più cose si scoprono di lei e della sua epoca. Per esempio, che il secolo breve, il nostro 1900 (nostro perché ci siamo nate), il secolo del modernismo e delle rivoluzioni, ha proposto nei confronti delle donne atteggiamenti persino peggiori di quelli loro riservati nel 1800. In particolare la storiografia artistica ha fatto sparire le donne dalla storia dell’arte proprio nel 1900, non prima, quando pur fra tante difficoltà erano stati approntati quasi dei censimenti su di loro. E’ una faccenda da rileggere con attenzione, anche per avere una visione più chiara sulla contemporaneità.

  2. Gianfranco Personé

    Credo Paola che hai sintetizzato a pieno il significato storico, artistico e sociale che la figura di Camille Claudel rappresenta. Il bellissimo libro di Anna Maria Panzera a lei dedicato, come questo appassionante articolo, rappresentano veramente degli squarci su un mondo misogino e patriarcale che non ci ha mai abbandonato. Grazie ancora a tutte e due.

    • Anna Maria Panzera

      Grazie a te Gianfranco. Leggo e apprezzo i tuoi articoli e ho visto che ti sei occupato di alcune marginalità con sensibilità e occhio critico. Le storie di cui ci occupiamo spesso s’incrociano. Lo sapevi che Nina Simone era di origini pellerossa e afroamericana e, per linea materna, in parte anche irlandese? Sono sempre più convinta che le contaminazioni, il meticciato, la fusione delle culture, siano mille volte preferibili alle unicità troppo autoreferenziali, anche di genere.

      • Gianfranco Personé

        No, Anna non lo sapevo. Ti leggo sempre con interesse, alla prossima.