Luglio, Italia già del boom, in quell’Irpinia che si è lasciata alle spalle i monti con i boschi di nocciole (le avellae che danno il nome alla grande città) ma non è ancora la grande pianura della Capitanata che si apre al tavoliere e agli infiniti campi di grano duro. Luglio, quando ci si organizza per mietere ancora a mano il grano, appezzamento dopo appezzamento, tra colline, prati scoscesi, carri di legno tirati da coppie di pazienti mucche carichi di covoni da portare nelle aie dove si celebrerà il rito della trebbiatura. La mietitrebbia meccanica è un lusso per pochi possidenti, e i piccoli contadini si organizzano per mietere a mano, in una sorta di mutuo aiuto codificato solo dalla tradizione, e poi trebbiare in comune nell’aia più grande, affittando le vecchie trebbiatrici a gasolio del mezzadro. Breve sosta durante la mietitura a mano Mietere a mano è un’arte, con il sorrecchio, – il falcetto a mano dei simboli di lotte politiche che qui non sono mai arrivate -, ed è una fatica, ore curvi sui campi, perché bisogna tagliare il grano più possibile vicino alla terra, perché poi anche la paglia serve, in quell’economia così vicina alla sopravvivenza e al baratto. La sveglia è prima dell’alba, tra le 2 e le 3, perché ci si deve incontrare con gli altri, raggiungere il campo e iniziare al primo chiarore di un’alba lontana, o agli ultimi riflessi di una luna piena che schiarisce la notte. Nemmeno un attimo di quel chiarore può essere sprecato, perché poi quando il sole si leva, rapidamente diventa rovente, e stare chini sulla terra, con ritmati movimenti del braccio a tagliare il grano quasi fosse una danza, diventa sudore e fatica insopportabile. Non si parla molto quando si miete, il fiato serve per avanzare in velocità, perché fatto un campo ce n’è un altro ancora, e poi ancora. Si parla, ci si sfotte prima di iniziare, o in qualche raro intermezzo, per bere un po’ d’acqua, in attesa dell’unica vera pausa, il “mozzicone”, la colazione di mezza mattina, che diventa anticipo di pranzo, e quando per la stanchezza è già passata la voglia di parlare o di scherzare. All’ombra dell’albero più grande, o calato in un pozzo nella campagna, si conserva al fresco una pignatta di terracotta, piena di vino rosso, con l’imboccatura chiusa da un tappo forato, per poter bere a canna ma per impedire che bisce o saettoni si vadano a rifugiarsi dentro. A casa la donna si sveglia anche lei alle 2, e comincia a impastare la farina per fare il pane, e accende il forno prima che l’aria diventi troppo calda. E mentre il pane lievita, a turno, le donne dei mietitori, con regole di turnazione che solo loro conoscono, preparano il mozzicone per tutti. Quando la grande padella si sarà riempita, si preparerà una grande teglia da portare nei campi. Il compito è affidato alle figlie adolescenti, non più bambine da avere il privilegio del solo gioco, e non ancora adulte da avere già il peso di una famiglia. Ma le ragazzette vanno protette dagli sguardi e dalle mani rese svelte dal lavoro di mietitura degli uomini, e allora andranno a portare le teglie della colazione accompagnate dai ragazzini più piccoli, con la scusa di affidare loro i fiaschi con l’acqua fresca. Il mozzicone Nell’aria frizzante della prima mattina, una grande padella, ove si cuociono insieme pezzi di coniglio, di pollo, di oca, tutti animali ormai stanchi del tempo e dell’aia, catturati e scuoiati da poco, e una volta rosolati nell’olio bollente, arricchiti con patate, zucchine (le cocozze, ormai grosse, non certo quelle piccole e tenerelle per il mercato del martedì), carote, barbabietole e insaporiti con le papaccelle, i piccoli peperoni rotondi, conservati sotto aceto, e se l’inverno è stato generoso, con qualche pezzo di salsiccia di maiale conservata sott’olio. E’ il mozzicone, la colazione che si fa tra le 10 e le 11, quando si è svegli da più di otto ore, e si riprende fiato prima che il sole di mezzogiorno segni il tempo del cambio di lavoro. Si mangia, si beve, ma non sempre si parla o si scherza, la fatica si fa sentire. Si continuerà ancora per un paio d’ore, e poi si torna a casa, e il pranzo sarà un piatto di ziti al sugo di pomodoro, con qualche pezzo di carne risparmiato al mozzicone, e ricotta salata grattugiata sopra. Nel pomeriggio, prima dei lavori dell’orto che dureranno fino a sera, ognuno si fa i conti di quanto grano avrà raccolto, non per goderne, ma per calcolare quanto ognuno dovrà darne di decime. Perché sì, nell’Italia del dopoguerra e del boom economico, nell’Italia che si scopre nazione industriale, i contadini che hanno comprato il loro pezzo di terra dal vecchio padrone, pagando in sudate lire, e registrando l’acquisto dal notaio, devono rispettare la tradizione di pagare le decime sui raccolti di grano, olio e granturco ai vecchi proprietari. E quando ormai quest’economia non regge più, comincia a farsi strada l’idea di andare in fabbrica al Nord. Non ci sarà il sole di mezzogiorno, non ci sarà il profumo dell’alba nei campi, ma la speranza di sottrarsi a un destino di subalternità. Non ci saranno le decime da pagare, ma forse, la speranza di diritti diversi. Da conquistare ogni giorno. Tanto alle sveglie all’alba o al lavoro di notte ci sono abituati. E la domenica c’è ancora il profumo degli ziti, e del mozzicone, ormai diventato un secondo civile, dopo la pastasciutta. Ma non è più lo stesso sapore. 3 Risposte Roberto Rizzardi Maggio 25, 2016 Un affresco potente, evocativo e rigoroso. Ed è bello e poetico. Ottimamente scritto, descrive con esattezza le situazioni e le atmosfere che richiama e dipinge così sapientemente. Potrebbe essere il brano estratto da un libro di storia, ma figurerebbe benissimo anche in un testo di sociologia. Rispondi Paola Cinti Maggio 27, 2016 Grazie per questo tuo secondo contributo che mi sta cambiando la prospettiva sul cibo e sul mangiare, ampliandola nello spazio e soprattutto nel tempo. Rispondi Antonio Maggio 29, 2016 Vi ringrazio dell’apprezzamento. Mi sforzo con questi articoli di ritrovare un senso al mangiare e di fare il mio piccolo atto di ribellione contro il la bulimica offerta di programmi, blog, siti, chef, masterchef, esperti…..tutto su un cibo in cui si perde la storia e so annacquano profumi e sapori….un omaggio niente affatto nostalgico alla frugalità e alla sapienza di donne che hanno fatto la storia silenziosa e non scritta di un pezzo d’Italia. Un riconoscimento alla capacità di fare da mangiare quando c’era poco da mangiare. Per dare da mangiare a ragazzi e uomini che si spaccavano la schiena per vecchi e nuovi feudatari. Cibo povero, un ingrediente troppo facilmente dimenticato nella storia sociale d’Italia, abbagliata dai lustrini della modernità. Rispondi Scrivi Cancella commentoLa tua email non sarà pubblicataCommentaNome* Email* Sito
Roberto Rizzardi Maggio 25, 2016 Un affresco potente, evocativo e rigoroso. Ed è bello e poetico. Ottimamente scritto, descrive con esattezza le situazioni e le atmosfere che richiama e dipinge così sapientemente. Potrebbe essere il brano estratto da un libro di storia, ma figurerebbe benissimo anche in un testo di sociologia. Rispondi
Paola Cinti Maggio 27, 2016 Grazie per questo tuo secondo contributo che mi sta cambiando la prospettiva sul cibo e sul mangiare, ampliandola nello spazio e soprattutto nel tempo. Rispondi
Antonio Maggio 29, 2016 Vi ringrazio dell’apprezzamento. Mi sforzo con questi articoli di ritrovare un senso al mangiare e di fare il mio piccolo atto di ribellione contro il la bulimica offerta di programmi, blog, siti, chef, masterchef, esperti…..tutto su un cibo in cui si perde la storia e so annacquano profumi e sapori….un omaggio niente affatto nostalgico alla frugalità e alla sapienza di donne che hanno fatto la storia silenziosa e non scritta di un pezzo d’Italia. Un riconoscimento alla capacità di fare da mangiare quando c’era poco da mangiare. Per dare da mangiare a ragazzi e uomini che si spaccavano la schiena per vecchi e nuovi feudatari. Cibo povero, un ingrediente troppo facilmente dimenticato nella storia sociale d’Italia, abbagliata dai lustrini della modernità. Rispondi