Parole come perle è un progetto dedicato all’approfondimento di alcuni termini che usiamo abitualmente. Lo scopo non è didattico, ma volto ad acquisire di una maggiore consapevolezza nel loro utilizzo, e il titolo che ho scelto parte dall’idea che solo se consideriamo le parole come perle, potremo fare del filo dei nostri pensieri il mezzo per usarle nel migliore dei modi. Chi mi conosce e mi segue si aspetta che la mia ricerca sia coerente e quindi ha silenziosamente ispirato la scelta della prima: Parola. Paròla (sost. fem.) Complesso di suoni organizzato sotto l’azione più o meno accentratrice di un “accento”: corrisponde a una “immagine di una nozione o di una azione” nel caso di parole ‘principali’, oppure a un “rapporto” nel caso di parole ‘accessorie’ L’espressione linguistica individuale, considerata, a diversi livelli, dal punto di vista morale o stilistico Simbolo di inanità e inconsistenza, contrapposta alla realtà e alla concretezza dell’operare Facoltà naturale di esprimersi mediante suoni articolati Impegno o garanzia che la persona formula sulla base del proprio credito o prestigio, autentico o presunto. Quanto sopra è un piccolo estratto. Il Devoto-Oli, da cui provengono queste definizioni, delinea l’essenza del termine parola in maniera così ampia da riempire una delle due colonne che compongono una pagina. Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere. (Emily Dickinson) Parola è un termine importante e che va molto oltre la descrizione di un oggetto, azione o categoria. È un mattone fondativo non solo linguistico, ma anche morale e contiene al suo interno tanto i lineamenti tecnici, ed anche un po’ aridi, della tecnica grammaticale, quanto la grandiosa complessità dell’uomo e delle sue costruzioni sociali e relazionali. Le parole sono fondamentali per l’interazione sociale, per convincere, per spiegare. Con le parole si lavora, ci si difende, si attacca. Si raccontano storie grandiose e si coordinano imprese titaniche, ma ci si fa anche la spesa o si dà palese dimostrazione della propria insipienza. Le parole sono anche armi, acuminate e devastanti, oppure balsami pietosi; carezze per anime dolenti oppure sferza e tormento. Non bisognerebbe mai usarle senza consapevolezza, tanto più che, potendo essere anche “parola scritta”, hanno una loro persistenza che ne perpetua ed amplifica, nel tempo e nello spazio, messaggio e conseguenze. Dovremmo tenerne particolare conto proprio oggi, nel tempo della comunicazione individuale libera ed accessibile a tutti, quando il grande serraglio dei social, con la belluinità consentita dalla sostanziale anonimità di un nickname, mediata da una tastiera e da un’illusione di onnipotenza, rende così facile non prendersi carico delle parole dette. Si narra in un libro che il re persiano Shāhrīyār, essendo stato tradito da una delle sue mogli, uccide sistematicamente le sue spose al termine della prima notte di nozze. Un giorno, Sharāzād, decide di offrirsi volontariamente come sposa al sovrano, avendo escogitato un piano per placare l’ira dell’uomo. La bella e intelligente ragazza ogni sera racconta al re una storia, rimandando il finale al giorno dopo. Va avanti così per mille e una notte e alla fine il re, innamoratosi, le rende salva la vita. Sono molti i libri dedicati alla parola come potente strumento in grado di piegare il destino, ma nessuno come Le Mille e una notte ci dimostra che da un uso intelligente di esse può dipendere la nostra vita. E come accade nella poesia, dove le parole si legano alla musica e la fine di ognuna trova eco nella seguente, così la fine di questo post ha ispirato il prossimo, che dedicherò alla parola: Virtuale. 5 Risposte Paola Cinti Febbraio 2, 2016 Un progetto che mi sembra particolarmente necessario oggi non solo per acquisire maggiori informazioni su alcuni termini, ma perché ci aiuta a ritrovare momenti di approfondimento e di stasi che nei social sono sempre più rari, e soprattutto ci regala un momento per arricchire il nostro pensiero prima che diventi linguaggio. Un grazie speciale per il tempo e l’occasione che ci stai regalando. Rispondi Roberto Rizzardi Febbraio 3, 2016 Sono felice e grato dell’occasione che mi hai offerto Paola. Le parole sono “oggetti” potentissimi e, come avviene anche con le armi, l’uso consapevole che se ne fa può certamente renderle più letali, ma anche e soprattutto, più sicure ed efficaci. Le armi sono maneggiate dalla malavita e dai mercenari, nonché dagli stolti che ne fanno una sorta di “prolunga sessuale”, ma anche dai tutori dell’ordine, dunque il bene e il male che discende dal loro utilizzo sono espressione esclusiva di chi le maneggia. Bisogna anche evitare che, esprimendosi, parta un colpo accidentale, perché il male incidentale è la forma di offesa più stupida possibile, causa dolore senza neanche la consolazione di uno scopo. I social, ma anche media più tradizionali, per non parlare della comunicazione politica, ci hanno abituati alle forme ed ai contenitori, e le frasi ad effetto, i claim, hanno usurpato il posto che un tempo occupavano le tesi. Credo che riappropriarsi del senso delle parole, sia una necessaria pratica di manutenzione mentale. Per farlo efficacemente devi prima esplorare il tuo pensiero, smettendo di subire impulsi esterni. Abbandonando le reazioni pavloviane ridivieni arbitro del tuo destino, o perlomeno un osso più duro. Rispondi Lorenza Febbraio 3, 2016 Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere. (Emily Dickinson) Rispondi Gianfranco Personé Febbraio 3, 2016 Socrate era un cultore della parola amava dialogare e con la dialettica riusciva a distruggere i suoi detrattori, ma non ci ha lasciato nessuno scritto. Platone, suo allievo, lo fa parlare nei “dialoghi”, ma non sapremo mai se è il vero pensiero di Socrate o è quello di Platone. Platone è molto ambiguo sul concetto di scrittura, infatti, condanna un tipo di scrittura per esaltarne un’altra quella interna all’anima che impara, essa è infatti paragonata a un libro in cui un interno scrivano annota sensazioni e ragionamenti. Platone scrive dei dialoghi per lo stesso motivo per cui Socrate condanna l’uso della scrittura: la concezione della filosofia come sapere aperto. Per lui utilizzare la scrittura significa infatti attribuire a un oggetto come ad esempio un libro il ruolo di supplemento dell’anima e quindi assottigliare quella distanza insolcabile tra mondo sovrasensibile (anima) e mondo sensibile (libro), questo dualismo spirito-materia sembrerebbe non essere mai superato. Aristotele, allievo di Platone, invece sistematizza l’uso della parola scritta, è inoltre il fondatore di un’enciclopedia del sapere, che riesce a raccogliere la verità delle cose, perché per conoscere la verità bisogna raccogliere tutto quello che gli uomini fino ad adesso hanno conosciuto. Aristotele, dal canto suo, costituisce una vera e propria pietra miliare nell’evoluzione della scienza linguistica. Mentre Platone si era soffermato sul problema ontologico del rapporto nome-cosa, chiedendosi innanzitutto quale funzione avesse il segno linguistico, Aristotele non cerca più di determinare le cause dei nomi e il perché della loro rispondenza alle cose, ma in primis cerca di stabilire il fine del linguaggio e quindi la funzione che ha il nome in quanto simbolo. La scienza del pensiero e del linguaggio, in greco chiamati entrambi lògos nel senso di segni delle cose, è la logica di cui Aristotele può essere considerato a buon diritto il fondatore, anche se egli non usa il termine logica per indicare tale scienza, ma la chiama piuttosto analitica perché analizza e scompone il pensiero nei suoi elementi Per Aristotele essa è strumento delle altre scienze, ma è soprattutto scienza di per sé e suo ruolo è occuparsi del pensiero e del linguaggio e attraverso essi delle realtà e delle loro relazioni di cui sono segni. Ecco che la condanna della scrittura di Socrate tramite Platone è un tema di grande attualità soprattutto a fronte della rivoluzione tecnologica degli ultimi decenni e dell’uso distorto che se ne fa nel web e non solo, come giustamente dice Roberto, e grazie quindi al novello Aristotele internauta per farci “riacquistare” il giusto uso della parola che è fondamento della nostra cultura occidentale, che in un mondo globalizzato, e perennemente in rete, di fatto diviene “cultura dominante”. Rispondi Roberto Rizzardi Febbraio 4, 2016 Un commento veramente denso Gianfranco e che testimonia del fascino e della centralità della parola, nel senso della comunicazione, fin dai tempi più antichi, e non potrebbe essere altrimenti. Mi sembra assai interessante la considerazione che si può trarre, una volta rapiti dal vortice assai ampio della tua dissertazione, dall’esame del rapporto tra la parola detta e quella scritta. Nella trasmissione delle idee e della storia vi è sempre il “convitato di pietra” della mistificazione e della narrazione asservita. La parola può essere al servizio tanto della verità quanto della menzogna. In questo senso la parola detta ha finalità “tattiche”. Io pronuncio un discorso, intavolo una discussione o racconto una storia e l’uso della parola diviene strumento istantaneo mediante il quale spiego, convinco, narro, punto insomma ad un’influenza immediata, ma effimera, al di fuori degli effetti che induco nel mio interlocutore. La parola scritta, al contrario, perpetua nel tempo la sua efficacia. Le parole comportano sempre una grande responsabilità, quelle scritte portano questa responsabilità ai massimi livelli. Quello che dico rimane nel ricordo di chi ascolta, esce trasfigurato dal suo processo di elaborazione, subisce la corruzione del ricordo affievolito e muore con il suo portatore. Quello che scrivo rimane e perpetua nel tempo la mia onestà intellettuale, o la sua assenza. Quello che è scritto rimane, diviene oggetto fisico, perlomeno nel supporto, e può essere verificato assai meglio di quanto è semplicemente detto. Dunque se la menzogna si perpetua con maggiore efficacia, è pur vero che la sua confutabilità risulta maggiore. Si afferrano meglio gli oggetti delle idee. In questi tempi, che sovvertono abitudini radicate e ci confondono con realtà che ci ostiniamo a trattare con strumenti datati, la dimensione social sfuma il confine tra parola scritta e parola detta. Le esternazioni, continue e spesso futili, che un tempo sarebbero rimaste nei limiti di una comunicazione episodica e utilitaristica, tipici della comunicazione verbale, assumono la persistenza potenziale di quella scritta. La differenza, naturalmente, sta nel fatto che un tempo si scriveva dopo attenta ponderazione e con la consapevolezza di lasciare una testimonianza duratura. Ora questo elemento risulta confuso. Rispondi Scrivi Cancella commentoLa tua email non sarà pubblicataCommentaNome* Email* Sito
Paola Cinti Febbraio 2, 2016 Un progetto che mi sembra particolarmente necessario oggi non solo per acquisire maggiori informazioni su alcuni termini, ma perché ci aiuta a ritrovare momenti di approfondimento e di stasi che nei social sono sempre più rari, e soprattutto ci regala un momento per arricchire il nostro pensiero prima che diventi linguaggio. Un grazie speciale per il tempo e l’occasione che ci stai regalando. Rispondi
Roberto Rizzardi Febbraio 3, 2016 Sono felice e grato dell’occasione che mi hai offerto Paola. Le parole sono “oggetti” potentissimi e, come avviene anche con le armi, l’uso consapevole che se ne fa può certamente renderle più letali, ma anche e soprattutto, più sicure ed efficaci. Le armi sono maneggiate dalla malavita e dai mercenari, nonché dagli stolti che ne fanno una sorta di “prolunga sessuale”, ma anche dai tutori dell’ordine, dunque il bene e il male che discende dal loro utilizzo sono espressione esclusiva di chi le maneggia. Bisogna anche evitare che, esprimendosi, parta un colpo accidentale, perché il male incidentale è la forma di offesa più stupida possibile, causa dolore senza neanche la consolazione di uno scopo. I social, ma anche media più tradizionali, per non parlare della comunicazione politica, ci hanno abituati alle forme ed ai contenitori, e le frasi ad effetto, i claim, hanno usurpato il posto che un tempo occupavano le tesi. Credo che riappropriarsi del senso delle parole, sia una necessaria pratica di manutenzione mentale. Per farlo efficacemente devi prima esplorare il tuo pensiero, smettendo di subire impulsi esterni. Abbandonando le reazioni pavloviane ridivieni arbitro del tuo destino, o perlomeno un osso più duro. Rispondi
Lorenza Febbraio 3, 2016 Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere. (Emily Dickinson) Rispondi
Gianfranco Personé Febbraio 3, 2016 Socrate era un cultore della parola amava dialogare e con la dialettica riusciva a distruggere i suoi detrattori, ma non ci ha lasciato nessuno scritto. Platone, suo allievo, lo fa parlare nei “dialoghi”, ma non sapremo mai se è il vero pensiero di Socrate o è quello di Platone. Platone è molto ambiguo sul concetto di scrittura, infatti, condanna un tipo di scrittura per esaltarne un’altra quella interna all’anima che impara, essa è infatti paragonata a un libro in cui un interno scrivano annota sensazioni e ragionamenti. Platone scrive dei dialoghi per lo stesso motivo per cui Socrate condanna l’uso della scrittura: la concezione della filosofia come sapere aperto. Per lui utilizzare la scrittura significa infatti attribuire a un oggetto come ad esempio un libro il ruolo di supplemento dell’anima e quindi assottigliare quella distanza insolcabile tra mondo sovrasensibile (anima) e mondo sensibile (libro), questo dualismo spirito-materia sembrerebbe non essere mai superato. Aristotele, allievo di Platone, invece sistematizza l’uso della parola scritta, è inoltre il fondatore di un’enciclopedia del sapere, che riesce a raccogliere la verità delle cose, perché per conoscere la verità bisogna raccogliere tutto quello che gli uomini fino ad adesso hanno conosciuto. Aristotele, dal canto suo, costituisce una vera e propria pietra miliare nell’evoluzione della scienza linguistica. Mentre Platone si era soffermato sul problema ontologico del rapporto nome-cosa, chiedendosi innanzitutto quale funzione avesse il segno linguistico, Aristotele non cerca più di determinare le cause dei nomi e il perché della loro rispondenza alle cose, ma in primis cerca di stabilire il fine del linguaggio e quindi la funzione che ha il nome in quanto simbolo. La scienza del pensiero e del linguaggio, in greco chiamati entrambi lògos nel senso di segni delle cose, è la logica di cui Aristotele può essere considerato a buon diritto il fondatore, anche se egli non usa il termine logica per indicare tale scienza, ma la chiama piuttosto analitica perché analizza e scompone il pensiero nei suoi elementi Per Aristotele essa è strumento delle altre scienze, ma è soprattutto scienza di per sé e suo ruolo è occuparsi del pensiero e del linguaggio e attraverso essi delle realtà e delle loro relazioni di cui sono segni. Ecco che la condanna della scrittura di Socrate tramite Platone è un tema di grande attualità soprattutto a fronte della rivoluzione tecnologica degli ultimi decenni e dell’uso distorto che se ne fa nel web e non solo, come giustamente dice Roberto, e grazie quindi al novello Aristotele internauta per farci “riacquistare” il giusto uso della parola che è fondamento della nostra cultura occidentale, che in un mondo globalizzato, e perennemente in rete, di fatto diviene “cultura dominante”. Rispondi
Roberto Rizzardi Febbraio 4, 2016 Un commento veramente denso Gianfranco e che testimonia del fascino e della centralità della parola, nel senso della comunicazione, fin dai tempi più antichi, e non potrebbe essere altrimenti. Mi sembra assai interessante la considerazione che si può trarre, una volta rapiti dal vortice assai ampio della tua dissertazione, dall’esame del rapporto tra la parola detta e quella scritta. Nella trasmissione delle idee e della storia vi è sempre il “convitato di pietra” della mistificazione e della narrazione asservita. La parola può essere al servizio tanto della verità quanto della menzogna. In questo senso la parola detta ha finalità “tattiche”. Io pronuncio un discorso, intavolo una discussione o racconto una storia e l’uso della parola diviene strumento istantaneo mediante il quale spiego, convinco, narro, punto insomma ad un’influenza immediata, ma effimera, al di fuori degli effetti che induco nel mio interlocutore. La parola scritta, al contrario, perpetua nel tempo la sua efficacia. Le parole comportano sempre una grande responsabilità, quelle scritte portano questa responsabilità ai massimi livelli. Quello che dico rimane nel ricordo di chi ascolta, esce trasfigurato dal suo processo di elaborazione, subisce la corruzione del ricordo affievolito e muore con il suo portatore. Quello che scrivo rimane e perpetua nel tempo la mia onestà intellettuale, o la sua assenza. Quello che è scritto rimane, diviene oggetto fisico, perlomeno nel supporto, e può essere verificato assai meglio di quanto è semplicemente detto. Dunque se la menzogna si perpetua con maggiore efficacia, è pur vero che la sua confutabilità risulta maggiore. Si afferrano meglio gli oggetti delle idee. In questi tempi, che sovvertono abitudini radicate e ci confondono con realtà che ci ostiniamo a trattare con strumenti datati, la dimensione social sfuma il confine tra parola scritta e parola detta. Le esternazioni, continue e spesso futili, che un tempo sarebbero rimaste nei limiti di una comunicazione episodica e utilitaristica, tipici della comunicazione verbale, assumono la persistenza potenziale di quella scritta. La differenza, naturalmente, sta nel fatto che un tempo si scriveva dopo attenta ponderazione e con la consapevolezza di lasciare una testimonianza duratura. Ora questo elemento risulta confuso. Rispondi